Sabato 2 aprile ore 21 – Basilica di San Sebastiano – concerto con musiche del compositore sardo
Parigi, 12 agosto 1953. Al cimitero del Pantin viene calata nella fossa una bara ricoperta di gladioli bianchi e rossi, colori di Sardegna. Finiva così l’esistenza del compositore sardo Lao Silesu. Celebre in vita e apprezzato da compositori famosi come Puccini e da cantanti celeberrimi come Caruso; sconosciuto, o quasi, poi.
Nato a Samassi, in provincia di Cagliari, nel 1883, studiò a Milano (1904) e a Parigi, dove visse dal 1927 fino alla morte, salvi brevi periodi in Italia.
Destino comune a molti sardi, d’altronde, quello di potersi esprimere solo fuori dalla propria terra: ma destino comune non solo a noi. Non è la Terra, allora, ad allontanarci da sé: è la vita stessa che ci porta ad andare qui e là, ma che ci consente di essere sempre noi stessi, che è poi quel che conta. Infine, è proprio fuori dalla propria terra che acquista senso il nostro agire che, perché diversi – in quanto provenienti da altrove – acquisisce individualità e, mentre ci slega e ci libera dalla connotazione regionale, celebra proprio l’appartenenza al luogo lasciato dietro di sé.
Il nostro luogo finisce per assumere il rilievo dell’idealità e conferisce lustro al nostro operare in senso assoluto, affrancandolo dalla persona in sé, comunque limitata nel tempo e dall’agire della quotidianità.
È proprio grazie a questo essere diversi, che l’Isola attinge il proprio onore, che fiorisce, va da sé, dove trova terreno per farlo. Quel che conta, dunque, è l’aver fatto e non il dove lo si è fatto. Ma tant’è: sempre Sardi siamo, e sempre Sardegna è.
Così Silesu.
Pianista celebre e celebrato in vita, autore di opere per la tastiera e per la voce, che ne fecero un personaggio di prim’ordine nel mondo parigino degli anni venti e trenta e dell’immediato dopo guerra. Conobbe, oltre a Puccini e a Caruso, anche Maurice Ravel, Gabriele D’Annunzio, Manuel de Falla; frequentò anche personaggi come David Rockfeller, Sandro Pertini, Emilio Lussu e Grazia Deledda.
E, dunque, ben fa la Regione Sardegna a promuovere la riscoperta di un personaggio che ha celebrato la propria terra e che degnamente è un vanto per essa.
Direi che il terreno, quello della emigrazione, è perfetto, perché è della medesima pasta di quello di Silesu: quello della proficua lontananza.
Altrettanto degni di plauso i musicisti – entrambi sassaresi – cui si deve la lodevole intrapresa di ridare vita e chi la vita sarda ha saputo altrettanto degnamente illustrare.
Ad Alberto Ferrero Della Marmora, niente è stato intitolato sul continente: né vie né piazze né altro. E sì che, in vita, aveva ricoperto cariche prestigiose e ricevuto onori che, di solito, contraddistinguono i grandi personaggi.
Non così per i fratelli, Alfonso e Alessandro, la cui memoria è assicurata da parecchie intitolazioni, anche a Biella.
Invece, ad Alberto, nato a Torino il 7 aprile del 1789, tocca quel destino che molti sardi ben sanno: il silenzio. Ma, proprio questo silenzio illustra, strano caso della sorte, la Sardegna. Per vicissitudini che, qui, spazi e tempi non ci consentono, dal 1824 fino alla morte – avvenuta il 18 maggio 1863 – e fino all’ultimo viaggio in Sardegna nel 1851, la sua vita fu dedita all’illustrazione e alla celebrazione della nostra isola: 13 anni, 4 mesi, 17 giorni, secondo il calcolo che lui stesso ne fece.
Ben 50 lavori scientifici testimoniano quelli che, per dirla con le sue stesse parole, furono “anni, mesi di patimenti, di lavoro, di attività“. Di questi vogliamo ricordare solamente i due grandi volumi e l’Atlante, pubblicati nel 1857, col titolo, diretto e immediato, di Voyage en Sardaigne. Opera monumentale e ancor oggi fondamentale, ma che, nella sua patria, il continente, cioè, ha scarsi e disaffezionati riscontri. Silesu e Lamarmora: due vicende speculari, legate, entrambe, a quella dimensione di lontananza, che è proficua proprio perché segna quella distanza che ci sprona a essere quelli che, forse, restati in patria, non avremmo avuto bisogno di essere.
Già, bisogno e necessità, senza i quali l’adagiarsi è condizione corrente e ricorrente, quando non auspicata.
Allora, la strada sul cammino del sé ci porta lontano, forse, nello spazio, ma illumina il presente in cui il nostro acquisito modo di essere si espande, finalmente, è giunge a quello che, sempre, è stato. Semplicemente, mancava la coscienza di sé. La proficua lontananza è tale perché, chi la prova, sperimenta appieno l’esser suo, in una dimensione che gli consente di colmare la distanza, nello spazio, dal luogo di partenza entro uno spazio nuovo che, perché interiore, perché spazio del cuore e della memoria, è bagaglio inseparabile della persona ormai realizzata.
Per la comunità sarda di Biella – ma non solo, è ovvio – la figure di Silesu e di Lamarmora diventano emblematiche di una condizione umana rigenerata e riacquisita. Singolare che proprio da Sardi venga la prima dedica in continente ad Alberto Della Marmora: singolare, ma frutto, infine, della logica interna alle cose. Solo noi, da Biella, potevamo indicare chi, partito proprio da Biella, ha saputo illustrare con tanta dedizione la nostra terra lontana. Monito a trarne esempio per darle lustro sempre maggiore.
Roberto Perinu