Salvatore Niffoi a Biella per parlare di libri, di origini e di identità
“Ho messo ali di carta per volare lontano, ma il mio cuore è a Orani”
Riportiamo l’articolo pubblicato dal giornale locale “Eco di Biella” in cui Marinella Debernardi racconta la serata biellese dello scrittore Salvatore Niffoi che parla dei suoi libri e delle sue origini.
Nonostante sia stato inserito all’ultimo momento all’interno della XIV edizione della Festa sarda “Sa Die de sa Sardigna”, all’interno del programma de “I libri illuminano“, l’aperitivo con Salvatore Niffoi ha fatto registrare il tutto esaurito al Melting Pot. Ad accoglierlo Battista Saiu e i soci di Su Nuraghe, in sodalizio con la Biblioteca civica, per dare il benvenuto all’ospite.
Al centro dell’evento i libri che Niffoi ha scritto e anche quelli che lo hanno formato, fatto crescere, illuminato. Il mondo sardo biellese lo ha accolto festosamente e lo ha ascoltato parlare di sardità e della ricchezza della lingua sarda, della cultura che sta nel passato, mai da buttare.
“La Sardegna – ha detto lo scrittore – vive un terremoto antropologico che schiaccia i valori del passato. Ripartiamo dal Nuraghe per arrivare al presente, torniamo ad essere sardi, ma prima di tutto uomini che conoscono il mestiere di vivere. Abbiamo una lingua che è latino puro mineralizzato, anzi 373 lingue nei 373 paesi della Sardegna. Parlare il sardo è un atto d’amore e di orgoglio.”
“Salviamo il salvabile – ha aggiunto Niffoi – anche di quel paradiso terrestre che ora è in pericolo. Al tempo della mia infanzia avevamo 28 tipi di pere, 15 di pesche a partire dalle mandorline, che oggi vanno scomparendo. C’è un bastardismo ideologico che gioca a rinnegare il passato e nega la via del riscatto, fottuta dai politici, a questa terra e ai suoi abitanti. La cultura, il saper fare, la cucina, l’arte, il cinema sardi sono lo strumento piu’ potente che abbiamo. Prima ve ne accorgerete, prima ci costruirete su il futuro”.
Niffoi ha ricordato le sue origini, Orani, quella casa umile, povera ma ricca, una sola camera, la forza della simbiosi tra locale e progresso, la matericità di quel mondo che ha raccontato senza che nessuno gli avesse chiesto di scriverne, la funzione della donna nella società sarda, testimone del dolore, della sofferenza e della speranza. Come nei suoi libri.
“Io ho messo ali di carta e di cultura – ha spiegato – per volare lontano da Orani, ma restando là con il cuore, con la nostalgia della mia terra, con il ricordo del nonno affabulatore. C’è bisogno di leggere, di sapere: un adulto che legge è un cretino in meno in giro per strada. La lettura ci liberi dai tuoni, dai tiranni e dai lampi.”
L’autore si è dichiarato libero dall’editoria, non avendo mai scritto per il mercato ma per il lettore, a cominciare dai suoi allievi, quelli che usano una lingua italiana devastata: “Noi abbiamo dal 553 a. C. una lingua che è ambra cristallizzata; come la coda di una lucertola ci è ricresciuta ogni volta che un popolo colonizzatore ha provato a tagliarcela. La lingua sarda sono le nostre radici di sangue e la si salva parlandola”.
Ancora un accenno al libro della sua vita, per scoprire che sono tanti, e vanno da Tolstoj a Balzac, da Masala a Bernard.
E poi è già ora di andare, con gli occhi e la mente pieni di questo scrittore sanguigno, dalla personalità straripante, per il quale è fondamentale la difesa della sardità che è “sacrificio, è coraggio, è andare fuori rimanendo sardi, è smetterla con il pietismo, è avere piedi per correre e testa per pensare.”
Marinella Debernardi
Abbacrasta: il mito surreale in “La leggenda di Redenta Tiria”
Disponibile nella Biblioteca Su Nuraghe
Il vero protagonista del romanzo “La leggenda di Redenta Tiria” di Salvatore Niffoi è Abacrasta. Un paesino che nessuno conosce perchè “ha solo milleottocentoventisette anime, novemila pecore, millesettecento capre, novecentotrenta vacche, duecentoquindici televisori, quattrocentonovanta vetture e millecentosessantatre telefonini.” Un luogo magico e mitico che è inutile cercare in un atlante, un paesaggio inventato nella toponomastica ma reale nella terra brulla e riarsa, negli ulivi, negli alberi di sughero e nei greggi di pecore. Abacrasta è un paesino come tanti in cui miseria e povertà la fanno da padrone, arcaico e radicato in comportamenti, linguaggi e ritmi che sembrano essere rimasti immutati per secoli. Se non ci fosse l’indicazione temporale data dalla presenza dei cellulari sarebbe difficile attribuire una data alle storie raccontate. Storie nelle quali si respira un’ aria magica, storie che hanno il pathos e la forza dei racconti che i nostri nonni ci facevano nelle sere d’inverno attorno a “sa ziminera”: il segreto, la maledizione di Abacrasta.
L’io narrante che ci racconta le storie di Abacrasta è l’ufficiale di stato civile, in pensione, Battista Gramminzone, colui che ha sempre messo i timbri e firmato il nullaosta per il seppellimento dei compaesani che rinunciavano alla vita. Ci racconta le vicende degli Abacrastesi e la maledizione che li colpisce: pochi ad Abacrasta muoiono di morte naturale, perché ad un certo punto della loro vita una Voce misteriosa ma inelutabile li chiama: “Ajò, preparati che il tuo tempo è scaduto”, e al malcapitato non resta che ubbidire. Gli uomini si slacciano la cintura dei pantaloni che portano a doppio giro, fatta dai calzolai del paese e se la legano al collo; le donne invece usano la fune. Vecchi e giovani, Tziu Genuariu che si appende alla ringhiera della scala il giorno che compie 100 anni e la ventenne Beneitta Trunzone che si appende all’anta dell’armadio prima che la rinchiudano in convento.
Questo fino a sei anni prima quando Battì Gramminzone ha applicato l’ultimo timbro. Fino a che in paese non arriva una ragazza cieca, Redenta Tiria, figlia del sole, venuta “a portare la luce nel paese delle ombre”, a cui il padre che la accecò per troppo amore, disse di scendere sulla terra a fermare “quelli scellerati di Abacrasta che non vogliono più godere della mia luce”. Una storia triste, ma raccontata con grande maestria: le prime pagine possono lasciarvi perplessi ma, alla fine, scoprirete che questo libro vi resterà nel cuore. Un discorso a parte meriterebbe lo stile di Niffoi, un efficacissimo impasto di italiano e di modi di dire della lingua sarda che conferisce il giusto equilibrio di drammaticità e ironia alla narrazione. Consigliamo questo libro a chi vuol approfondire la conoscenza della letteratura sarda contemporanea.
Biagio Picciau