Sin dal Settecento la cucina piemontese è oggetto di studio. Nel secolo dei Lumi essa si presentava fortemente influenzata nelle pietanze e nelle modalità di portata dalla cultura gastronomica d’Oltralpe, come nel caso del servizio alla francese, caratterizzato dal fatto di porre sin dall’inizio del pasto tutte le portate a tavola, circostanza che attualmente di rado trova riscontro nel territorio subalpino1. Quella che era la cucina sabauda cominciò ad italianizzarsi a partire dall’Ottocento, a seguito del verificarsi di differenti fattori e fenomeni di natura sociale e storica. Un primo apporto fu senz’altro fornito dall’affermazione della classe borghese e dall’uscita dei cuochi di professione dalle corti reali e nobiliari; al contempo, però, si diffuse l’industria e determinante fu sicuramente il contributo sociale apportato dal passaggio delle donne dal mondo delle case ai luoghi esterni di lavoro, ed in particolare alle fabbriche, fenomeno per lo più focalizzato nelle città2. Con l’Unità d’Italia ed il flusso di immigranti dal meridione del Paese nei decenni a seguire, specie, nel corso del Novecento, l’influenza gastronomica francese declinò definitivamente come verificabile dal progressivo minor spazio concesso ai grassi in favore dell’olio, non più proveniente dalla sola Liguria, e rispetto alle salse, sempre più desuete ed emarginate rispetto al passato sulle tavole piemontesi3.
Oggi il patrimonio della storia gastronomica subalpina ha ritrovato una sua risurrezione grazie al movimento Slow Food ed alle relative istituzioni ed organismi connessi e derivati, nonché sulla base dell’interesse riscontrabile nelle copiose adesioni di pubblico in occasione di particolari iniziative culturali a tema culinario4. Si rammentano, inoltre, le articolate organizzazioni delle Proloco zonali nel corso di svariate manifestazioni autunnali, come nel caso del Festival delle Sagre di Asti, per la cucina contadina dei comuni del Monferrato ogni secondo weekend di settembre, delle iniziative ruotanti intorno agli eventi delle Langhe e di Alba (CN), agli appuntamenti di Caluso (TO), per la vendemmia dell’Erbaluce, e di Settimo Vittone (TO), per la Fiera del cavolo verza e, per il Biellese, senza pretese di esaustività, in riferimento alla Ronda del Bramaterra ed al Vinincontro del Ricetto di Candelo.
Inoltre, i patrimoni culturali locali della pastorizia e dell’agricoltura, insieme ai relativi prodotti, sono divenuti l’eredità da tramandare e trasmettere sia ai posteri, sia ai nuovi immigrati che, imparando le tradizioni culinarie locali del Piemonte e recuperando le nozioni e le pratiche agricole di svariate coltivazioni e produzioni campestri, sono diventati i custodi di una memoria in parte diversa da quella di origine ma in grado di essere trapiantata a nuova vita altrove, nelle proprie terre di nascita, quali ad esempio altre regioni della penisola5 o, addirittura, Paesi dell’Est europeo quali l’Albania o la Macedonia6, quale esempio di un complesso fenomeno immigratorio ed emigratorio virtuoso.
Alcune brevi riflessioni socio-storiche e comparatistiche finali meritano menzione rispetto ai costumi della gente subalpina in connessione ad alcuni prodotti eno-gastronomici del cosiddetto ricettario piemontese. In primis, anche la cultura piemontese, per la sua matrice fortemente contadina, ha sempre celebrato l’abbondanza e la ricchezza del cibo, sinonimo di benessere, appartenenza sociale e forza in omaggio al principio del “viver bene, mangiar sano“, con la sana ed etica preoccupazione che nulla venga sprecato7. Anche sulla tavola locale l’offerta del latte e dei prodotti caseari8, e, quando disponibile, della carne9, magari nella veste della cosiddetta finanziera, e per le evenienze più importanti dispensata come bollito alla piemontese, nonché delle pietanze cerealicole10, come la pasta, anche ripiena, la polenta ed il riso, con la panissa della zona vercellese e biellese, hanno costituito e sono oggi un emblema identitario. Tali prodotti, insieme ad una varietà straordinaria di storici vini autoctoni11, tra i quali si ricordano, oltre al citato Erbaluce, i vitigni dell’Arrneis, del Barbera, della Freisa, del Grignolino e del Nebbiolo, costituiscono una modalità esemplare per esprimere sacralità verso l’ospite da servire per primo e cui riservare le portate migliori12, in continuità con un passato nel quale si affermava che «chi non mangiava non era di questo mondo13». Inoltre anche in Piemonte il “bere il vino”, a richiamo di particolari momenti della vita, e la preparazione della pasta in casa, specie degli agnolotti, come narrato nell’ultimo romanzo dello scrittore Giovanni Arpino dal titolo La trappola amorosa14, costituiscono un’importante forma di ritualismo locale. Ritualità di matrice contadina, talora integrate nel Cristianesimo, che, similmente a quanto constatabile in Sardegna, hanno rivestito un ruolo particolare in relazione ad alimenti come il pane, preparato in più occasioni sotto diverse forme anche ad effigie animale15 e, qui esclusivamente, per il riso, in riferimento al quale si connettono manifestazioni volte alla propiziazione dei raccolti o delle cui pianticelle esistono diverse composizioni a funzione meta-cerimoniale16. A queste pietanze si sono innestate spesso e volentieri frutta e verdura, prodotti della terra utili a costituire portate a sé stanti o ad essere ingredienti per piatti complessi e, frequentemente, di recupero, come le zuppe (dal gotico suppa, ossia la fetta di pane inzuppato), tra le quali degne di menzione risultano proprio le versioni biellesi e canavesane della mitunà17. Last but not least il ruolo sulla tavola subalpina del pesce, soprattutto di quello fresco d’acqua dolce, specialmente autoctono, in antitesi ad una falsa e stereotipata rappresentazione del territorio, oltre a quello importato e conservato sottosale di origine marina come le acciughe ed il merluzzo. La cattura nei torrenti e nei fiumi locali e l’annesso consumo sulle tavole, per lo più in carpione o fritti nel burro, di cavedani, carpe, tinche, temoli, vaironi, lucci, anguille e trote fresche erano assai diffusi in passato in tutto il Piemonte ed anche nello stesso Biellese18, anche a causa del copioso lavoro ittico di diverse cooperative, oggi scomparse, site presso il bacino del Lago di Viverone19.
Gianni Cilloco
- Cfr., S.Lanfranchini, 1861 – 2011: appunti per una storia gastronomica piemontese, in Torino Magazine, Anno 22, n. 92, Primavera 2010, p. 155. [↩]
- Cfr. per il Biellese: G.Perona, Per una storia delle donne biellesi, in P.Corti e C.Ottaviano – a cura di, Fumne. Storia di donne, storie di Biella, Cliomedia, Torino, 1999, pp. 75-81. [↩]
- Cfr., S.Lanfranchini, op.cit., p. 155; M.Montanari, Italia, un mosaico di culture e cucine, pp. 21-23. [↩]
- Cfr., I.Diamanti, L’uomo che mangia, pp. 31-35. [↩]
- Cfr. C.Petrini, Gente di Piemonte, pp. 29-30: e pp. 55-56. [↩]
- Cfr. G.Barosio, Gino Simbula, la Sardegna nel cuore, p. 226; C.Petrini, op.cit., pp. 75-76. [↩]
- Cfr., C.Berardo, Alla tavola di Giovanni Arpino, pp.10-12; M.Novello, Latte et non plus ultra, in Rivista Biellese, Anno XII, n. 3, 2008, pp. 83-86. [↩]
- Cfr., M.Novello, op.cit., pp. 83-86; G.Piumatti – a cura di, 500 eccellenze piemontesi, Slow Food, Pioltello (MI), 2008, pp. 53-87. [↩]
- Cfr., G.Piumatti, op.cit., pp. 263-274; nonché: M.Novello, La donna nell’alpeggio, in P.Corti e C.Ottaviano, op.cit., p. 134. [↩]
- Cfr., G.Piumatti, op.cit., pp. 252-262. [↩]
- Cfr., G.Piumatti, op.cit., pp. 197-233. [↩]
- Cfr., M.Novello, Alberghi e ristoranti in cartolina, in Rivista Biellese, Anno X, n. 3, 2006, pp. 84-86. [↩]
- Cfr., C.Berardo, op.cit., pp. 13-14. [↩]
- Cfr., G.Arpino, La trappola amorosa, Rusconi, Milano, 1988. [↩]
- Cfr., M.Novello, Cibo per il corpo e per lo spirito, in Rivista Biellese, Anno XI, n. 2, 2007, pp. 76-77. [↩]
- Cfr., P.Grimaldi e B.Saiu, Forme e pratiche rituali, in Aa.Vv., Il riso, Script, Bologna, 2008, pp. 80-89. [↩]
- Cfr., M.Novello, La mitunà, altro che zuppa, in Rivista Biellese, Anno XII, n. 2, 2008, pp. 76-78. [↩]
- Cfr., M.Novello, Pesci d’acqua dolce nella cucina locale, in Rivista Biellese, Anno V, n. 4, 2001, p. 67; G.Piumatti, op.cit., pp. 151-156. [↩]
- Cfr., S.Lanfranchini, op.cit., p. 155. [↩]