Il comportamento alimentare, più di ogni altro aspetto culturale, è un rivelatore di identità e, nella specie di quella umana: diversamente da ogni altro essere vivente del pianeta, infatti, l’uomo modifica e lavora il cibo prima di consumarlo. Il pane, per esempio, è una vera e propria invenzione, ove il grano viene convertito in alimento attraverso un processo di trasformazione che, al contempo, si attesta a simbolo di civiltà e ad elemento identificativo della specie umana1. Tra le varie tecniche di variazione degli alimenti, perciò, si evidenzia quella che richiama il mito di Prometeo, ossia quella del fuoco e, quindi, la cottura, sorta di alchimia nella quale quanto è crudo si evolve in pietanza: di fatto la cucina si colloca, così, come luogo di metamorfosi nella quale si combinano insieme elementi che nascono separati e distinti, ossia uno spazio nel quale ha modo di manifestarsi un’arte caratterizzata, in un certo modo, dal fatto di rendere reale quanto prima non lo era2.
Aspetto fondamentale è poi la persona del cuoco, le sue origini, il suo bagaglio culturale di conoscenze tecniche, oltre che le doti personali, tutti elementi utili a rendere unici ed irripetibili i “piatti”: in tale quadro complessivo, infatti, il “mangiare” ha a che fare con la memoria, ossia con un mondo di esperienze umane che è ancora presente, grazie anche alla trasmissione orale, ove cibo e pietanze sono la risultante di processi storici, anche lunghi nel tempo, nonché essi stessi fattore di conservazione culturale. A tale proposito opportuna e rivelatrice appare essere una breve analisi filologica ed etimologica circa le parole “sapore” e “sapienza“: entrambe di origine latina, esse hanno una comune radice nel verbo săpĭo-is, săpĭi, săpĕre, il cui significato può consistere, alternativamente, nell’ aver sapore o nel sapere-conoscere, aspetti per i quali pare trovare sibillina conferma la massima del filosofo Ludwig Feuerbach, il quale affermava: «man ist was man isst», ossia «siamo quello che mangiamo»3.
La cucina sarda non rimane esente da tali costanti, in quanto nella sua ricchezza traspare la soggezione passata e l’attuale dipendenza dall’influsso della varietà della conformazione geografica e dalla storia dello stesso territorio isolano. Centrale si delinea la produzione legata alla panificazione ed ai dolci, ove il pane condito, da elemento di accompagnamento al pasto, è diventato nel tempo una vera e propria pietanza a sé stante4. Diversi ritrovamenti archeologici di formelle, timbri e matrici in terracotta attestano poi come, sin dall’epoca punico-romana, nonché in seno alla civiltà nuragica, si fosse soliti in Sardegna produrre dolci con motivi geometrici, floreali o animali.5. Il mondo della panificazione ha costituito nel tempo una sorta di “liturgia”, il perno della gastronomia locale, similmente a quanto constatabile presso le antiche grandi civiltà del passato, come traspare dalla lettura dei testi dell’Iliade e dell’Odissea, per non parlare del mondo mesopotamico e semitico descritti nell’Epopea di Gilgamesh e nell’Antico Testamento. Non appare un caso, quindi, vista la centralità e l’importanza di tale fenomeno “culinario”, che il Cristianesimo abbia posato la sua scelta “sacralizzante” e sacramentale sul pane e sul vino6. L’attività paniero-dolciaria in Sardegna ha visto principalmente protagoniste le donne, in modo pressoché esclusivo fino a pochi anni or sono, impegnate e custodi in un rito meta-religioso, come rivelano comportamenti quali il saluto bene-augurale «Dio vi guardi» all’ingresso nelle cucine e nei “laboratori”, il segno della croce sulla pasta ed i limiti nell’uso del coltello nel corso delle fasi preparatorie7.
La stessa terminologia dei relativi piatti locali, poi, denota la presenza delle influenze straniere del passato, quali quelle bizantine, spagnole, genovesi, arabe e, residualmente, punico-fenice, causa di nomi diversi nelle disparate zone dell’Isola, anche per una stessa portata o per pietanze sostanzialmente identiche, come nel caso delle Zippulas, citate, tra le altre, da Antonio Gramsci nella lettera del 26 febbraio 1927 alla madre8, e di sas Cattas, pietanze con la prima entrambe menzionate nel romanzo Elias Portolu di Grazia Deledda9. Max Leopold Wagner, nella sua opera La vita rustica della Sardegna riflessa nella lingua (Cfr. l’edizione Ilisso, Nuoro, 1996, pp. 173-177), ha evidenziato i vocaboli e le relative brevi spiegazioni simboliche inerenti le varietà dei dolci Sardi, prodotti mediante il sapiente uso di miele, formaggio e ricotta, nonché con la frutta, per lo più mandorle ed agrumi. E proprio in relazione agli ingredienti può riscontrarsi un curioso filone di studio sulla storia dell’identità sarda, come nel caso del cedro coltivato nella zona orientale dell’Isola. Legato alla coltura di tale albero da frutto, infatti, è un dolce tipico di Siniscola, sa Pompia, prodotto dalle caratteristiche quasi uniche dal momento che la relativa preparazione è al più rinvenibile in Sardegna solo in alcune località tra le quali Orosei, Oliena e Nuoro. La sua destinazione si rivela essere strettamente connessa all’occasione dei matrimoni, e vede l’uso del mesocarpo dello stesso frutto candito con il miele, in stretta similitudine con l’Aranzada. Il cedro pare essersi diffuso dall’India al Mediterraneo nell’antichità grazie alle migrazioni ebraiche e, con molta probabilità, a seguito dell’importazione da parte di gruppi semitici ellenizzati, tra il III Secolo a.C. e il 19 d.C., sotto l’imperatore Tiberio. Nella Bibbia tale frutto pare trovare collocazione con riferimento alla “Festa delle Capanne o dei Tabernacoli” (Sukkoth), ricordata nei libri del Levitico (XXIII, 40-43) e dell’Esodo (XXIII, 16), a memoria della liberazione dalla schiavitù in Egitto, dei quaranta anni di marcia nel deserto e del ritorno nella Terra Promessa; tuttavia la festa pare legarsi anche alla celebrazione della raccolta agricola, tutti aspetti che oggi trovano richiamo anche in diverse pratiche ed usanze riconoscibili nella festa “cristiana” di S.Anna di Tortolì del 26 luglio10.
Lo studio della tradizione dei dolci Sardi, quindi, pur caratterizzata da preparazioni tipicamente locali, presenta, come tutti i piatti della cucina italiana, la costante della condivisione11, ossia una contestualizzazione nella relazione, con una peculiarità però connessa alla produzione in occasione di particolari e specifiche feste ed eventi nei quali le stesse pietanze vengono offerte col bicchiere di vino obbligatorio, in su cumbidu: si tratta, infatti, di circostanze di aggregazione, di convivialità e, più specificamente, di ospitalità. La stessa commensalità, d’altronde, è essa stessa un rito di aggregazione e di unione materiale, come lo sono le stesse finalità e l’essere delle fasi preparatorie dei dolci Sardi per le donne, come testimonia ancora un racconto di Grazia Deledda, La via del male12.
La festa è, a ben vedere, una ritualità effimera, non destinata a durare nel tempo ma ad essere il culmine di determinati processi o periodi dell’attività produttiva e, non a caso, i relativi svolgimenti si focalizzano in corrispondenza del termine delle operazioni dell’annata agricola, quali l’aratura e la semina nell’inverno, la transumanza a maggio, il raccolto e la vendemmia tra l’estate e l’autunno, eccezionalità ove il cibo deve essere sia abbondante, sia particolare, motivo per il quale compaiono i dolci, solitamente assenti nel pasto quotidiano13.
Nell’occasione dei dolci, come di altri cibi, si può concordemente affermare che il «mangiare è vivere»14. E nella vita tali fenomeni garantiscono un’ulteriore possibilità di integrazione virtuosa e di arricchimento reciproco proprio attraverso lo scambio di conoscenze culinarie da altri territori e da altre popolazioni15, circostanze che si rivelano essere una costante nella storia dell’alimentazione umana. Ciò è verificabile, naturalmente, anche in Piemonte, come attestato dal caso di svariate esperienze16, tra le quali si collocano anche quelle che si sono verificate fino ad oggi all’interno del Circolo “Su Nuraghe” di Biella, raccontate nell’ultimo anno in vari articoli del sito dell’Associazione17. D’altronde «offrire cibo buono è uno dei modi migliori per dimostrare amore verso il prossimo»18.
Gianni Cilloco
- Cfr., C.Augias, Dal pane alle polpette, così l’uomo inventò i cibi, in Il Venerdì di Repubblica, n. 1147, 12 marzo 2010, p. 129; B.Saiu, Non di solo pane, in Aa.Vv., Parla come mangi. Il cibo dell’altro, Centro Territoriale Permanente per l’Educazione degli Adulti, Biella, 2006, pp. 8-10 [↩]
- Cfr., R.A.Alves, La cucina come parabola, Qiqajon – Comunità di Bose, Magnano, 1996, pp. 8-10; C.Augias, cit., p. 129; B.Saiu, cit., pp. 8-10 [↩]
- Cfr., R.A.Alves, cit., pp. 4-15; B.Saiu, cit., pp. 8-10 [↩]
- Cfr., G.Murru Corriga, I pani della tradizione, in Aa.Vv., Pani. Tradizione e prospettive della panificazione in Sardegna, Ilisso, Nuoro, 2005, p. 162 [↩]
- Cfr., T.Cossu, Il pane in Sardegna dalla preistoria all’età romana, in Aa.Vv., Pani, cit., p. 58 [↩]
- Cfr., B.Saiu, Dalla coltura alla cultura, in Aa.Vv., Il cibo dell’altro, Centro Territoriale Permanente per l’Educazione degli Adulti, Biella, 2005, pp. 7-11 [↩]
- Cfr., R.A.Alves, cit.,p. 13; M.R.Linardi, Viaggio in Sardegna, in Aa.Vv., La Cucina Regionale Italiana. Vol. IX: Sardegna, Mondatori Electa, Milano, 2008, pp. 11-15; G.Lupinu, Il lessico del pane, in Aa.Vv., Pani, cit.,p. 345 [↩]
- Cfr., A.Gramsci, Scritti sulla Sardegna, Ilisso, Nuoro, 2008, p. 158 [↩]
- Cfr., A.Vargiu, Postfazione, in N.De Giovanni, A tavola con Grazia. Cibo e cucina nell’opera di Grazia Deledda, Il leone verde, Torino, 2008, pp. 128-131 [↩]
- Cfr., A.Farina, La Pompia di Siniscola e la festa di S.Anna di Tortolì, in Sardegna Mediterranea, n. 25, Aprile 2009, pp. 36-39 [↩]
- Cfr., C.Augias, cit., p. 129 [↩]
- Cfr., R.A.Alves, cit., p. 10; C.Gallini, Il consumo del sacro. Feste lunghe di Sardegna, Ilisso, Nuoro, 2003, p. 75 e p. 268-269; P.Piquereddu, La candelaria di Orgosolo, in Aa.Vv., Pani, cit., pp. 253-258; R.Randacciu, Il pane raccontato, in Aa.Vv., Pani, cit., pp. 315-317; B.Saiu, Non di solo pane, cit., pp. 8-10. E più in generale: A.Van Gennep, I riti di passaggio, Bollati Boringhieri, Torino, 2009, p. 25 [↩]
- Cfr., C.Gallini, cit., p. 140 e pp. 281-282 [↩]
- Cfr., R.A.Alves, cit., p. 5 [↩]
- Cfr., M.Aime, Eccessi di culture, Einaudi, Torino, 2004, pp. 135-136 [↩]
- Cfr. esemplificativamente per l’immigrazione sarda: G.Barosio, Gino Simbula, la Sardegna nel cuore, in Torino Magazine, Anno 22, n. 92, Primavera 2010, p. 226 [↩]
- www.sunuraghe.it [↩]
- Cfr., C.Petrini, Gente di Piemonte, L’Espresso, Roma, 2010, p. 32 [↩]