Il Numero 5 dei Quaderni di Nuraghe Chervu dedicato a sa Limba – nuovo contributo dal Circolo Culturale Sardo Su Nuraghe di Biella – promulgata dalla Regione Piemonte la Legge (7 aprile 2009, n.12) per la Promozione delle tradizioni culturali delle minoranze linguistiche storiche non autoctone presenti sul territorio regionale – un saggio del dott. Giuseppe Onnis
Il Sardo deve considerarsi un dialetto o una lingua? Secondo M.L.Wagner, politicamente è un dialetto, riferito naturalmente all’italiano. Ma dal punto di vista linguistico la questione assume un altro aspetto. Il Sardo è un parlare romanzo arcaico con proprie spiccate caratteristiche che si rivelano in un lessico molto originale e in una morfologia e una sintassi molto differenti da quelle dei dialetti italiani.
La distinzione tra lingua e dialetto è difficile e arbitraria. Di solito la lingua corrisponde a una unità politica e culturale. Ma ci sono casi speciali. La Catalogna, per esempio, non è uno Stato, ma ha sviluppato una letteratura indipendente e originale rispetto al casigliano, cioè alla lingua spagnola; quindi il catalano viene considerato una lingua.
La Sardegna non è mai stata una Nazione indipendente, a prescindere dal periodo dei Giudicati, e non ha creato nei secoli una grande letteratura sua propria. Eppure anche il sardo è una lingua, perché ha connotati propri e non è confondibile con nessun altra e, come tale, viene considerata dai glottologi. Con qualche eccezione, come l’affermazione (inadeguata secondo Wagner) che si tratta di una “zona grigia” tra le lingue romanze orientali e occidentali (Lausberg), o una recente dichiarazione di un professore dell’Accademia della Crusca: «Il sardo è un guazzabuglio di dialetti». No, è una lingua con tanti dialetti, come l’italiano e le altre lingue neolatine. Forse il barone si sentiva ancora profondamente legato, nonostante tanti secoli di evoluzioni e innovazioni, ai tempi di Dante, dopo aver memorizzato una frase tagliente estrapolata dal De Vulgari Eloquentia, e rimasta intrappolata tra le scorie del suo buratto personale. È una battuta. Ma Dante in questo caso fa ridere, a parte gli errori del latino. «Sardos etiam qui non Latii sunt sed Latiis adsociandi esse videntur, eiciamus, quoniam soli sine proprio vulgari esse videntur, gramaticam tamquam simie homines imitantes; nam domus mea et dominus meus locuuntur» (libro I, capitolo 11°).
Il sommo poeta non accetta che i sardi, che non sono laziali, debbano essere associati ai laziali, poiché sembrano gli unici senza un proprio linguaggio; infatti dicono: «domus mea et dominus meus». Ma queste non sono parole latine? Invece, secondo lui, i sardi imiterebbero il latino come le scimmie imitano gli uomini. Eppure, se si crede ai documenti scritti nel Medioevo, doveva trattarsi di una lingua comune a tutta l’isola, vicinissima a certe parlate attuali del Centro Est. Ciò che doveva colpire, sul piano fonetico, era un sistema consonantico assai differente dalle parlate della penisola: le terminazioni vocaliche in –u, e soprattutto la pronuncia molto energica delle consonanti (caratteristica ancora attuale). (M.Contini, Etude de géographie phonétique et de phonétique instrumentale du sarde – pag. 9 – 10).
Bisogna aspettare il XIX secolo per cominciare ad interessarsi del sardo, aggiunge Contini, per tentare di definire le sue differenti varietà e situarle in rapporto alle altre lingue neolatine. Molti specialisti, infatti, da allora soprattutto si sono dedicati allo studio del nostro idioma. Il più autorevole è M.L.Wagner che, dopo aver vinto una borsa di studio, è approdato in Sardegna e vi è rimasto quasi mezzo secolo, appassionandosi alla nostra lingua e scrivendo centinaia di articoli e decine di libri.
Tra i tanti altri autori, ne citiamo uno tra tanti, il prof. Massimo Pittau, che in questi ultimi trent’anni ha approfondito gli studi sulla nostra lingua, sulle sue proprietà, sulle sue individualità rispetto alle altre, e si è occupato, con particolare attenzione, del Logudorese, del Nuorese e anche del Nuragico. Ma quando indaga da esperto sull’etimologia di certi termini che a suo avviso non provengono direttamente dal latino, ma dall’etrusco comparato al nuragico, qualcuno esprime dei dubbi (per es. Blasco Ferrer). Ma le spiegazioni critiche fornite dal prof. Catalano non sembrano abbastanza chiarificatrici ed accettabili (almeno in parte). Comunque non entriamo nel merito. Tralasciamo le polemiche e i contrasti di cui sono intrise le ricerche storico-linguistiche del latino diventato sardo. Ci sono molte contestazioni anche su Wagner; ma se non ci fosse stato, potremo essere ancora lontani dalla soluzione di molti problemi concernenti la nostra cultura linguistica e storica. Esaminiamo allora la questione che ci sta a cuore. La lingua latina è approdata in Sardegna quando, nel 238 a.C., Roma conquistò l’isola che era di dominio cartaginese da quasi tre secoli. Latinizzazione precoce, quindi. Ma fino all’XI secolo nessun documento scritto ci istruisce sul processo di sparizione delle lingue indigene (e a noi ignote tranne il punico) e dell’assorbimento di queste nella lingua latina. Si parla naturalmente di latino volgare, non classico, cioè la parlata popolare dei Romani spediti in Sardegna (militari, contadini, agricoltori) o esiliati “ad effodienda metalla“.
Il sostrato, la lingua diffusa nella nostra area prima che un’altra le si sovrapponesse, avrà certamente influito sulla pronuncia che spesso si discosta da quella delle altre lingue; e non solo. Ma la nostra analisi elementare, semplice (cioè non da esperti linguisti) riguarda soprattutto il nostro territorio e, in particolare, i fonemi comuni e diversi dei due diasistemi sardi: logudorese e campidanese, e la trasformazione del latino in queste parlate principali: una più arcaica, perché per secoli la zona è rimasta isolata, e una più evoluta nel tempo a causa dei suoi contatti con altre popolazioni e quindi con superstrati più numerosi. Ma l’origine è la stessa e la pronuncia all’inizio non differiva. Radici comuni, dunque. E stessa lingua. Le differenze di articolazione e di accento poi non sono così rilevanti. Il nuorese, per esempio, è foneticamente più arcaico.
Avremo l’opportunità di menzionare molte voci nel corso della nostra analisi, ma difficilmente potremo citarle tutte, perché secondo Jordan-Manoliu Manea, il numero delle parole latine ereditate esistenti in ciascuna lingua romanza annonta a circa 2.000. Delle 6.700 parole latine riportate dal R.E.W., 1.300 (quasi il 20%) sono panromanze (cioè comuni a tutte le lingue), 3.900 (quasi il 60%) si sono conservate soltanto in certe lingue romanze (non escluso il sardo), e 1.500 (un po’ più del 20%) in una o in un’altra.
Riteniamo molto interessante immergerci, anche senza la dovuta necessaria erudizione, in queste curiosità della fonetica sarda, in questo cosiddetto romanzo antico, e con fenomeni analoghi che ritroviamo in altre regioni arcaiche come i Balcani, l’Africa latina e l’area ibero-romanza.
Naturalmente lo studio non è esaustivo, ma un semplice sguardo generale (non totale) su molte nostre particolarità: come il latino è diventato sardo attraverso il mantenimento o il mutamento di accento, il vocalismo e il consonantismo. Una curiosità da dilettanti.
Giuseppe Onnis