«Oggi come ieri», in scena il Natale del tempo presente

presepe
Presepio sardo ad Oropa, opera di Paolo Monni, Collezione Alvigini, permanentemente esposto nella Basilica superiore del Santuario Mariano Eusebiano Alpino.

Ho scritto questo atto unico sotto l’onda emozionale della immigrazione massiccia da Sud a Nord che caratterizzò la prima metà degli anni ’60. La non accoglienza, il vero razzismo che allora si rivelò in tutta la sua ottusità e crudeltà verso la mia gente che cercava un onesto lavoro attratta dal bene economico di cui erano garanti le fabbriche del nord, mi scosse profondamente. Anch’io sono una immigrata, perché molto piccola fui portata, nel ’46, da una soleggiata benché prostrata Napoli, ad una nebbiosa Milano stretta nel gelo di un inverno così rigido che nessuno se lo ricordava. Forse perché la vita era dura ovunque, ci si doveva rimboccare le maniche ed aiutarsi l’un l’altro per ricostruire e rinascere come Nazione libera, democratica, non ci fu nei miei confronti mai discriminazione. Anzi fui io, invitata a casa di una amichetta, a disquisire sulla pasta che era troppo cotta e, orrore, condita solo col burro (dove era il sugo saporoso e profumato che faceva mia nonna?). Ma nel ’60 non fu così. Forse perché erano in tanti, a frotte, ad arrivare sui treni stracolmi, con improbabili masserizie, perché erano così diversi i loro costumi familiari, il loro cibo, la loro parlata. La paura dell’invasione del proprio territorio da parte di sconosciuti credo che innestò quella triste avversità che si tradusse in riprovevoli ed umilianti gesti. L’accoglienza, la più sacra virtù di ogni popolo civile, di cui ci è dato esempio nella Bibbia da Abramo che accoglie gli stranieri-angeli sotto la tenda, preparando loro cibo e lavando loro i piedi senza sapere chi fossero, questa accoglienza non ci fu nel ’60, come se, per paura, la gente si fosse imbarbarita. Rammentai che anche Gesù nascituro, non era stato accolto a Betlemme (casa di pane), anch’egli straniero proveniente da Nazaret. Giuseppe e Maria con la loro umile cavalcatura (lei col pancione), stanchi e malconci, non dovettero sembrare abbastanza degni neppure per una pidocchiosa osteria. Oggi, dopo 2000 anni l’Europa assiste all’emigrazione massiccia di popolazioni povere e disperate che fuggono da malattie, carestie e genocidi. Anche loro cercano un po’ di pace e di sicurezza da guadagnare col lavoro, anche loro cercano di riiunire a sé le loro famiglie come unico guscio di calore che restituisca una identità. Ma ecco che il razzismo risorge, più feroce di prima perché adesso il diverso-straniero è spesso non solo classificato come pezzente ma come delinquente tout-court. “Non si integrano, non imparano la nostra lingua, rubano, stuprano, fanno tanti figli e poi ci colonizzano, ci portano via il lavoro, vogliono convertirci alla loro religione”. Ma se mettiamo in atto l’accoglienza, scacciando i pregiudizi, se diventiamo curiosi di modi diversi di vivere, se giudichiamo le persone per quelle che sono e non per la loro apparenza, se cerchiamo un dialogo fra pari, nascono i sorrisi e le strette di mano, lo scambio di ricette culinarie e bambini diversi per colore di pelle che giocano assieme. Credo che se governassero le donne, in cucina avverrebbe la vera integrazione; fra mamme potrebbe avvenire la vera integrazione, perché i bambini sono innocenti, non nascono con preconcetti e il gioco è un’incredibile legante. Scrissi questo atto unico e fu rappresentato in una Chiesa a Milano a Natale , per rammentare quanto il Vangelo ci esorti ad accogliere lo straniero amando il prossimo.
Oggi desidero riproporlo sopratutto per sottolineare quanto, purtroppo, nulla sia cambiato: duemila anni fa, negli anni ’60, nel 2000 di oggi. Questa rappresentazione vuole essere ricordo, ammonimento ed esortazione per vivere in noi questo Natale in modo migliore. Può darsi (e mi auguro), che dopo la recita, si abbia desiderio di andare a trovare i nostri vicini marocchini per una fetta di panettone, un caffè arabo e un augurio di pace.

Ludovica Pepe Diaz

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