L’arte culinaria sarda, parafrasando alcune celebri riflessioni consultabili nell’opera Mare e Sardegna di D.H.Lawrence, è una vera e propria culla di tesori del sapore dai caratteri autarchici, al contempo ricca, fantasiosa e povera, unica ed universale, ai confini della moderna nouvelle cuisine, capace di coniugare, ovunque sull’Isola, la trasformazione dei doni della varietà della natura geografica e delle stagioni insieme all’eredità di una storia plurimillenaria caratterizzata dall’isolamento1. Sulle tavole sarde si distinguono due macro-categorie di specialità: la cucina “di mare” e la tavola “di terra”.
La prima, mondo culinario di più recente attenzione e rielaborazione, focalizza la sua produzione lungo la costa, nelle città portuali, luoghi ove sono rintracciabili i piatti legati soprattutto ai frutti della purezza e della limpidezza delle acque marine o salmastre ove trovano asilo svariate attività ittiche, come la raccolta e la coltura di crostacei, molluschi e di talune specie della flora acquatica, nonché l’allevamento di varie tipologie di pesce. Tali tesori sono capaci di garantire la continuità anche di risalenti tradizioni di radice fenicia, greca2 e spagnola, come nel caso di ricche conserve, quali la bottarga di muggine e sa merca, fatta con muggine bollito e sa ziba, locale erba palustre3. Al contempo sono riconoscibili pietanze sorte nei contesti di enclavi culturali gastronomiche quali, nell’ambito tabarchino il cascà, sorta di cuscus delle isole di San Pietro e Sant’Antioco, e nelle aree catalane la cassola, zuppa di mare di matrice spagnola, per non parlare dei contesti di origine liguro-genovesi, con la burrida, antipasto di gattuccio e razza. Tuttavia piatti come sa fregula cun cocciula si delineano essere la sintesi e la linea di raccordo tra la costa e l’entroterra, in quanto unione di sapori della terra ed, attraverso le arselle, del mare4.
Più diffusa e risalente nelle sue articolazioni è la cosiddetta cucina “di terra”, di matrice agro-pastorale, ricca di simboli, semplice e non speziata, sebbene dal gusto deciso e dai profumi intensi, come quello di mirto, caratterizzata dalla pratica di antichi sistemi di conservazione del cibo, come nel caso del pane carasau5. Nella tavola di “terra” ruolo centrale rivestono i prodotti cerealicoli, la carne, i manufatti caseari, il miele ed il vino. Da sempre il grano è fulcro della gastronomia sarda e non solo, in quanto elemento dal significato spirituale per la sua insita essenzialità nutritizia e, per tale ragione, legato al mito della dea Demetra, madre di Persefone, figlia senza la quale la prima non avrebbe permesso il germoglio delle piante6. La relativa produzione e lavorazione isolana ha trovato attenzione sia nella storia, in quanto la Sardegna è stata uno degli antichi granai dell’Impero Romano7, sia nella letteratura a partire dalla monumentale opera ottocentesca Voyage en Sardaigne del biellese Alberto Ferrero Della Marmora8, con la nota distinzione fra tre tipi di farina, conformemente alla relativa suddivisione di matrice latina9, ossia la farina fine (sa poddini, da pollen, pollis), la farina media (sa simula, da simila) e la farina “grossa” o crusca (fùrfaru, da furfur). Il connesso mondo della panificazione, che ha costituito nel tempo una sorta di “liturgia”, fenomeno ravvisabile all’interno della civiltà ellenica prima10, ebraica poi e nella stessa religione Cristiana, come testimoniano la scelta “sacralizzante” e sacramentale inerente il pane, oltre al vino11, ha visto in Sardegna le donne principali protagoniste in modo pressoché esclusivo fino a pochi anni or sono, impegnate e custodi di riti meta-religiosi, anche grazie all’importanza del loro ruolo all’interno dell’alimentazione umana attraverso l’allattamento12. Diffusi sino a pochi anni or sono e significativi a riguardo erano comportamenti quali il saluto bene-augurale «Dio vi guardi» all’ingresso nelle cucine e nei “laboratori”, il segno della croce sulla pasta ed i limiti nell’uso del coltello nel corso delle fasi preparatorie13. La pasta, invece, ha visto la sua preparazione focalizzarsi sull’uso della semola e dell’oggi autoctono zafferano, per lo più della zona di San Gavino Monreale14, come nel caso dei celeberrimi malloreddus o di sa fregula; a parte, tuttavia, si pongono, però, piatti legati all’antica memoria culinaria come i filindeu ed i ravioli detti culingiones o culurgiones o cullurzones o spighetta, preparati con diversi tipi di ripieni in varie zone dell’Isola, dei quali in questa sede si rammenta la produzione rintracciabile in Ogliastra, a base di patate, menta ed aglio15.
La carne, pietanza centrale nel banchetto sardo16, oltre che per gli arrosti e le preparazioni in umido, eccelle per alcune originali tipologie di cottura “scenica”, come nel caso della preparazione barbaricina a carriaxu, ove esperti “cucinieri” imbastiscono una buca riscaldata con braci, rivestita con foglie di mirto e timo, nella quale inseriscono gli animali da arrostire, per lo più porcetti, e ricoprono il tutto accendendovi sopra il fuoco: un sistema di cottura ad interramento complesso ed ancestrale, quindi, che risulta trovare uso anche per un prodotto come su malloru de su sabatteri, ossia “il toro del ciabattino“, richiamato anche da La Marmora sempre nel suo Viaggio in Sardegna17, ove sussistono cuciti l’uno dentro l’altro un vitello, una capra, un maialino, una lepre, una pernice ed un uccellino, o come nel caso similare ma più semplice di su piattu mistu, ove un cappone viene farcito con un pollo18. In tale quadro importanza non certo minore hanno assunto le verdure e le zuppe di accompagnamento, per le quali rilevano l’uso del finocchio selvatico in relazione alle carni, insieme ai carciofi, i cardi, alle olive ed ai pomodori19.
La produzione casearia della Sardegna vede le sue eccellenze in formaggi DOP20, frutto dell’allevamento allo stato brado sia degli ovini sia dei bovini, dai quali hanno origine nel primo caso il pecorino sardo ed il fiore sardo, oggetto di varie e “saporite” procedure di stagionatura, la cui utilizzabilità culinaria prevede, tra le altre, la presentazione a pietanza autonoma alla griglia21, mentre nel secondo caso si hanno su casizolu del Montiferru ed il dolce sardo arborense. Parallelamente sussistono diversi formaggi freschi di origine ovina22, tra i quali si rammenta su gioddu, di latte fermentato, vera e propria sorta di yogurt isolano e su casu de axedu, di latte di pecora, cagliata acida ricavata dalla coagulazione raccolta in contenitori senza aggiunta di acidi, con consistenza maggiore dello yogurt23. Nel settore del latte bovino si ricordano, poi, quali vere e proprie peculiarità, sa fresa del Marghine, latticino per lo più fresco, e sa peretta, versione sarda della scamorza di latte vaccino, servibile arrostita alla brace accompagnata da verdure fresche24.
La produzione legata all’apicoltura, connessa al mito di Aristeo, divinità coltivatrice dell’Isola ed addomesticatrice delle api25, vede la distinzione di diverse tipologie di miele. Tra le varie gamme di prodotto particolare e quasi unico appare il miele originato dalla pianta di corbezzolo, raro nelle grandi quantità a causa della sua fioritura tra novembre e febbraio, citato da Orazio nell’Ars poetica e da Virgilio nelle Egloghe, dal colore ambrato e dal gusto amaro, adatto ad accompagnare l’assaggio del formaggio pecorino e a condire dolci come sas sebadas; allo stesso tempo notevoli sono il miele di asfodelo, pianta legata al culto dei morti26, dal tono chiaro e delicato nel gusto, e quello di cardo, cibo degli asini, animali sacri nelle culture dell’antichità27, dal colore quasi verdognolo, idoneo a dolcificare preparati di latte e ricotta28.
La viticoltura e la connessa produzione vinicola isolana vantano una tradizione storica plurimillenaria, risalente, sulla base di recenti ritrovamenti archeologici, addirittura alla civiltà nuragica29. La varietà dei vitigni oggi esistenti ricomprende tipologie di uva sia bianca sia rossa, tra le quali quelle di più antica coltura risultano essere il bianco Nuragus ed il rosso Monica, di probabile matrice camaldolese, mentre altri vini dotati oggi di una celebrità extra isola sono il Cannonau, per i più di provenienza iberica, ed il Vermentino di Gallura, la cui introduzione in Sardegna è attestata nel primo Ottocento con provenienza dalla Corsica30. A parte si collocano poi la Vernaccia di origine pre-romana31, ad invecchiamento in botte almeno biennale, dagli aromi alla mandorla, ottimo elisir di accompagnamento al pesce, ai crostacei, ai formaggi o quale dessert, ed i distillati come il celeberrimo Filu ‘e ferru, storica acquavite che deve il suo nome alla produzione clandestina in epoche di monopolio e “proibizionismo” statale, ed i liquori di mirto32.
Nel suo complesso, quindi, la stessa terminologia dei relativi piatti locali denota la presenza della storia, delle influenze e degli apporti di componenti “straniere” nel corso del passato, quali quelle latine, bizantine, arabe, genovesi, spagnole, e, residualmente, punico-fenice, causa di nomi diversi nelle disparate zone dell’Isola, anche per una stessa portata o per pietanze sostanzialmente identiche, come nel caso delle zippulas, citate, tra le altre, da Antonio Gramsci in una lettera del 26 febbraio 1927 alla madre33, e di sas cattas, pietanze con la prima entrambe menzionate nel romanzo Elias Portolu di Grazia Deledda34. Max Leopold Wagner35, ha evidenziato nei suoi studi linguistici vocaboli e dizioni le cui brevi relative spiegazioni simboliche riguardano diverse varietà di pietanze ed ingredienti isolani, tra i quali spiccano i dolci Sardi, prodotti mediante il sapiente uso di miele, formaggio e ricotta, nonché della frutta, come mandorle ed agrumi, ossia composti da ingredienti costitutivi riscontrabili, nel quadro di un curioso filone di studio sulla storia dell’identità sarda, in alcune delizie citate nell’Antico Testamento, come quelle cui fa cenno il Secondo Libro di Samuele (XIII,9), laddove si fa menzione di focacce e frittelle i cui specifici elementi costitutivi sarebbero, tra gli altri, lo zafferano, spezia di antica origine orientale36, e l’uva passa37. Rappresentativo è poi il caso del cedro coltivato nelle zone orientali dell’Isola, cui si lega la produzione di un dolce tipico di Siniscola, sa Pompia, articolo dalle caratteristiche quasi uniche giacché la relativa preparazione è al più rinvenibile in Sardegna solo in alcune località tra le quali Orosei, Oliena e Nuoro: la sua destinazione si rivela essere strettamente connessa all’occasione dei matrimoni, e vede l’uso del mesocarpo dello stesso frutto candito con il miele, in stretta similitudine con l’Aranzada. Il cedro pare essersi diffuso dall’India al Mediterraneo nell’antichità grazie alle migrazioni ebraiche e, con molta probabilità, a seguito dell’importazione da parte di gruppi semitici ellenizzati, tra il III Secolo a.C. e il 19 d.C., sotto l’imperatore Tiberio. Nella Bibbia tale frutto pare trovare collocazione con riferimento alla “Festa delle Capanne o dei Tabernacoli” (Sukkoth), ricordata nei libri del Levitico (XXIII, 40-43) e dell’Esodo (XXIII, 16), a memoria della liberazione dalla schiavitù in Egitto, dei quaranta anni di marcia nel deserto ed del ritorno nella Terra Promessa; tuttavia la festa pare legarsi anche alla celebrazione della raccolta agricola, tutti aspetti che oggi trovano richiamo anche in diverse pratiche ed usanze riconoscibili nella festa “cristiana” di S.Anna di Tortolì del 26 luglio38. Un’origine antica, ma di carattere più strettamente greco-orientale, testimoniata dalla stessa terminologia “panispeli” (dal latino panis, il pane, e dal greco pelios, ossia scuro o nerastro) secondo alcune analisi filologiche, sembrerebbe avere anche il cd. “pane di ghiande39” specialità per lo più barbaricina ed ogliastrina in via di estinzione, sorta di polenta e di castagnaccio citata con considerazioni negative nell’Ottocento anche dal La Marmora40.
Gianni Cilloco
- Cfr., Aa.Vv., Italia- Vol. 12. Sardegna, Mondadori – DeAgostini, Novara, 2009, p. 176; N.De Giovanni, A tavola con Grazia. Cibo e cucina nell’opera di Grazia Deledda, p. 15; D.Guaiti, La grande cucina regionale italiana. La Sardegna, Gribaudo, Milano, 2010, pp. 7-8; M.R.Linardi, Viaggio in Sardegna, in Aa.Vv., La Cucina Regionale Italiana. Vol. IX: Sardegna, Mondadori-Electa, Milano, 2008, p. 13; A.Vargiu, Postfazione, in N.De Giovanni, op.cit., p. 128. [↩]
- Cfr., M.Juaneda Magdalena, La cucina ellenica: pochi eccessi e molto gusto, in Storica National Geographic, n. 11, 2010, p. 102. [↩]
- Cfr., Aa.Vv., op. cit., p. 182; D.Guaiti, op.cit., pp. 14-16. [↩]
- Cfr., D.Guaiti, op.cit., pp. 14-16. [↩]
- Cfr., Aa.Vv., op. cit., p. 181; D.Guaiti, op. cit., p. 12; M.R.Linardi, op.cit., p. 13. [↩]
- Cfr., R.Graves, I miti greci, Longanesi, Milano, 2008, pp. 77-84. Nonché: A.R.Zara, L’Odissea in cucina, Il leone verde, Torino, 2006, p. 19. [↩]
- Cfr., M.R.Linardi, op.cit., p. 14. [↩]
- Cfr., A.Ferrero Della Marmora, Viaggio in Sardegna, (edizione italiana) Fondazione Il Nuraghe, Cagliari, 1926, p. 192. Nonché: Aa.Vv., op. cit., pp. 182-184. [↩]
- Cfr., M.L.Wagner, La vita rustica della Sardegna riflessa nella lingua, Ilisso, Nuoro, 1996, pp. 144-152. [↩]
- Cfr., M.Juaneda Magdalena, op.cit., p. 100. [↩]
- Cfr., B.Saiu, Dalla coltura alla cultura, in Aa.Vv., Il cibo dell’altro, Centro Territoriale Permanente per l’Educazione degli Adulti, Biella, 2005, pp. 7-11. [↩]
- Cfr., N.De Giovanni, op.cit., p. 7. [↩]
- Cfr., R.A.Alves, La cucina come parabola, Qiqajon – Comunità di Bose, Magnano, 1996, p. 13; M.R.Linardi, op.cit., pp. 11-15; G.Lupinu, Il lessico del pane, in Aa.Vv., Pani. Tradizione e prospettive della panificazione in Sardegna, Ilisso, Nuoro, 2005, p. 345. [↩]
- Cfr., D.Guaiti, op.cit., p. 23; M.R.Linardi, op.cit., p. 20. [↩]
- Cfr., Aa.Vv., op. cit., p. 181; D.Guaiti, op.cit., p. 13. [↩]
- Cfr., N.De Giovanni, op.cit., p. 24. [↩]
- Cfr., A.Ferrero Della Marmora, op.cit., p. 194. [↩]
- Cfr., D.Guaiti, op.cit., p. 13. [↩]
- Cfr., Aa.Vv., op. cit., p. 181; D.Guaiti, op.cit., p. 21 e p. 23. [↩]
- Cfr., M.Venusti – a cura di, Formaggi di Sardegna, Laore Sardegna – Regione Autonoma della Sardegna, Cagliari, 2009, pp. 11 e ss. [↩]
- Cfr., Aa.Vv., op. cit., pp. 178-181. [↩]
- Cfr., D.Guaiti, op.cit., pp. 19-20; M.Venusti, op.cit., pp. 19 e ss. [↩]
- Cfr., M.R.Linardi, op.cit., p. 21; M.Venusti, op.cit., p. 23. [↩]
- Cfr., Aa.Vv., op. cit., pp. 178-181; M.Venusti, op.cit., pp. 21 e 25. [↩]
- Cfr., R.Graves, op.cit., pp. 250-252. [↩]
- Cfr., J.Chevalier e A.Gheerbrant, Dizionario dei simboli, BUR, Milano, 2008, lemma “Asfodelo”. [↩]
- Cfr., J.Chevalier e A.Gheerbrant, op.cit., lemma “Cardo”. [↩]
- Cfr., Aa.Vv., op. cit., p. 180. [↩]
- Cfr., A.Casu e R.Peretto – a cura di, Vini di Sardegna, Laore Sardegna – Regione Autonoma della Sardegna, Cagliari, 2009, pp. 4-7. [↩]
- Cfr., Aa.Vv., op. cit., pp. 184-185; A.Casu e R.Peretto, op.cit. pp. 9-35. [↩]
- Cfr., A.Casu e R.Peretto, op.cit. p. 33. [↩]
- Cfr., D.Guaiti, op.cit., pp. 24-27; M.R.Linardi, op.cit., p. 15. [↩]
- Cfr., A.Gramsci, Scritti sulla Sardegna, Ilisso, Nuoro, 2008, p. 158. [↩]
- Cfr., A.Vargiu, op.cit., pp. 128-131. [↩]
- Cfr., M.L.Wagner, op.cit., pp. 173-177. [↩]
- Cfr., J.Abad, Le spezie: il condimento arrivato dal Paradiso, in Storica National Geographic, n. 12, 2010, pp. 104-107; M.Giusti, La cucina metabolica di Avicenna, in Storica National Geographic, n. 13, 2010, pp. 106-107. [↩]
- Cfr., D.Messi e R.Anau, La cucina della Bibbia, Il leone verde, Torino, 2002, p. 52. [↩]
- Cfr., A.Farina, La Pompia di Siniscola e la festa di S.Anna di Tortolì, in Sardegna Mediterranea, n. 25, Aprile 2009, pp. 36-39. [↩]
- Cfr., A.Farina, L’antica sapienza nel pane di ghiande di Baunei, in Sardegna Mediterranea, n. 27,Aprile 2010, pp.18-22. [↩]
- Cfr., A.Ferrero Della Marmora, op.cit., p. 193. [↩]