Il documentario Tempus de barristas , messo a disposizione dall’ISRE, l’Istituto Superiore Regionale Etnografico della Sardegna per le lezioni di cinema di Su Nuraghe Film del Circolo Culturale Sardo Su Nuraghe di Biella, è una pellicola ricca di belle immagini che ritraggono la nostra meravigliosa Isola di Sardegna. Ad esse si contrappone la difficile e dura vita del pastore più volte messa in evidenza come vita piena di sacrifici e di rinunce. Ma la rinuncia, per chi ama quella terra, non è solo semplice rinuncia poiché è presente anche una sorta di piacere, quello di essere immersi nella natura, di farne parte. Sensazione che, purtroppo, va via via scomparendo a causa di una cultura sempre più orientata, troppo spesso condizionata dalla tecnologia. Questo fenomeno è accelerato per l’estinzione, la scomparsa del ricambio generazionale, portatore di valori, quelli veri di cui una regione ricca di tradizioni come la Sardegna ne ha bisogno come il pane.
Il film, indirizzato ad un pubblico adulto e di bambini, riserva immagini cruente che a prima vista potrebbero disorientare lasciando “l’amaro in bocca” un retrogusto per niente gradevole, come quando il pastore uccide il capretto con freddezza tale da restare quasi impietriti.
Nelle scene successive i protagonisti discutono sulle modalità della macellazione. Rivelatrice di una mentalità lontana dal senso comune è l’affermazione: a me dispiace veramente quando un agnellino muore spontaneamente ma non quando lo uccido io. Un passaggio che disvela le dure condizioni della vita del pastore a cui accennavamo prima e che ne mette in evidenza le caratteristiche: ovvero riuscire a curare e voler bene all’animale perché esso porterà guadagno e, allo stesso tempo, dimenticare l’attaccamento che sconfina con l’affetto, per diventare freddi e insensibili al momento della sua uccisione.
La vita del pastore, come un ago di bilancia, deve rimanere sempre in equilibrio, senza scendere troppo da una parte o dall’altra. Emblematica l’affermazione del protagonista: non riuscivo più a ucciderne uno, poi col tempo lo superai, a significare la sofferenza della scelta, come l’amore verso il proprio animale avesse superato il bisogno di guadagno; amore che segnerà sempre la vita del pastore anche nel momento in cui deve dare la morte.
È risaputo come nel mondo della tradizione, i pastori mangino poca carne, non potendo eliminare la fonte del loro lavoro, pena la loro stessa sopravvivenza.
Come detto, il film Tempus de barristas mette ampiamente in risalto l’assenza di ricambio generazionale; infatti, Pietro, nipote di Mario, alla fine decide di abbandonate la terra per frequentare l’Istituto Alberghiero. Il giovane non avrebbe più bisogno di scuole; il nonno gli ha già insegnato tutto ciò che riguarda il lavoro relativo all’agricoltura e alla pastorizia; ma il bisogno – più che la voglia – di evadere dalle montagne di Urzulei è troppo forte per il ragazzo del tempo presente. Dal filmato non è chiaro se, alla fine, il ragazzo ritornerà sui monti ad aiutare il nonno.
In queste scene, sembra che il regista voglia tenerci “sulle spine”, lasciando a noi la speranza del ritorno.
Una sorta di proiezione nella mente a sollecitare le corde dell’immaginario che, attraverso la finzione scenica, pare voglia muovere le leve del bisogno del ritorno che alberga in ciascuno di noi, un mitico ritorno alle origini; la speranza di cercare e, ancor più, di trovare un nonno al nostro fianco per apprendere, “rubargli” ogni tipo di malizia per orientarci nei meandri della vita.
Semplicemente bella la camminata che Mario, il nonno del ragazzo, compie alla fine. Una camminata solitaria tra ciottoli, in compagnia del suo cane, diventato ormai una parte di lui e della sua vita.
Il paesaggio è quello di sempre: le montagne che lo hanno visto crescere da protagonista col suo gregge. Ormai vecchio, Mario appare senza più certezze, compresa quella del nipote lontano dal lavoro della terra. Stanco, siede sui sassi ad ascoltare rumori, a guardare le sue montagne, le uniche amiche ancora fedeli.
Nicolò Cogotti Ruggeri