Gianluigi Calesini Sotgiu ritratto con l’anziana madre, zia Antonietta. A fianco, la madrina Caterina Orrù mostra il dolce preparato per l’occasione. Le lezioni di cinema vengono presentate da Sardi di seconda e di terza generazione, una sorta di rito di passaggio, con il neofita accompagnato dai genitori, accolto in festa dai Soci della Comunità
Sabato 20 febbraio, presso il Circolo Culturale Sardo Su Nuraghe Gianluigi Calesini Sotgiu, Sardo di 2° generazione, in sostituzione del fratello Maurizio, che non ha potuto intervenire, ha presentato Toccos e Repiccos un documentario prodotto dall’ISRE, l’Istituto Superiore Regionale Etnografico della Sardegna, nel quale viene evidenziato lo strettissimo rapporto non solo temporale esistente tra la comunità e il campanile, che era, un tempo, parte integrante della vita quotidiana.
Anche lui da ragazzino faceva il chierichetto e ci narra del suo stupore, nel vedere la netta diversità nei modi utilizzati per suonare le campane dai campanari di Ponderano, retaggio delle sue esperienze di gioventù, rispetto alle immagini viste nel filmato, girato in Sardegna.
Era abitudine dei nostri vecchi, tramandare oralmente e praticamente le arti conosciute; i fanciulli che si mostravano più inclini, che avevano orecchio e talento musicale, venivano affiancati ai maestri campanari per apprenderne i segreti e dare continuità alla tradizione.
Quello del campanaro è un mestiere in via di estinzione, infatti, oramai le campane vengono suonate tramite congegni elettronici e non più dalle sapienti mani di esperti che, come abbiamo visto, fin dalla tenera infanzia imparavano a utilizzare questi strumenti, solo dopo aver effettuato un lungo apprendistato, un talento, quindi, che si acquisiva solo con la pratica e la perseveranza.
Questa abilità si va perdendo, in quanto oramai nessuno più vuole dedicare del tempo per imparare un mestiere che non produca guadagno, poco ricercato e non ritenuto necessario nella società attuale, completamente trasformata e disaffezionata alla ritualità e alla tradizione cristiana. Pochissimi, ormai, si renderebbero disponibili a donare il loro tempo libero, in diverse ore della giornata, per svolgere questa professione, se non come hobby, poiché richiede costanza e sacrificio.
Gianluigi sottolinea, inoltre, la funzione riconosciuta un tempo ai campanari, quella di utilizzare un codice “noto e condiviso” dalla gente. Un ruolo specialissimo e molto importante. Utilizzando diverse tipologie di suono, avevano la prerogativa di avvertire la popolazione di un paese intero suonando, ad esempio le campane a martello, per indicare un pericolo imminente, come in tempo di guerra o un semplice caso di incendio.
Il suono de “sas campanas” regolava, inoltre, gli usi e i costumi della comunità in particolar modo quelli religiosi, quotidiani o festivi, ma anche quelli civili, perché la chiesa e il campanile erano parte integrante e collante del sistema di vita comunitaria.
Alcuni “toccos” sono già da tempo spariti dal repertorio, perché non più utilizzati dalla comunità, come il tocco a “morteddu“, in morte dei bambini, o il tocco d’allarme; i pochi campanari rimasti, che perpetuano questa tradizione, perlopiù solo nelle feste importanti, come Natale, la ricorrenza dei Morti, l’Immacolata o la festa di sant’Antonio abate, o con i raduni e festival campanari, stigmatizzano la nostalgia per un mondo che pur persistendo marginalmente, non pervade più la vita quotidiana della maggior parte dei paesi della Sardegna.
Grazie a loro, ai pochi maestri campanari rimasti, si tramanda quel rapporto tra sacro e profano, tra religione e tradizione, incarnata da “su jaganu campanaru“, una figura a metà strada tra la Chiesa e la società.
Lucia Modesto