Di questo periodo dell’anno si è scritto di tutto e di più, ed a molti sembra che manchi lo spazio per dire qualcosa di nuovo.
Wagner (Dizionario Etimologico del Sardo) registra il centr. carrasecáre, log. carresegáre ‘carnevale’; Carta greca 31: καρησεκ(άρη); Stat. Sass. I, 113 (39r): innanti de carrasecare; I, 114 (39r): sas festas de natale de carrasecare. Egli propone l’origine di questa voce dal lat. carnem + secare, ossia ‘tagliare’, ‘interrompere il nutrimento della carne’; dunque la presenta come una formazione simile all’it. carnelasciare; sp. carnestolendas o gr. απόκρεως.
Il Dizionario Etimologico della Lingua Italiana interpreta l’it. carnevale (voce apparsa nel sec. XIII) o carnasciale (apparsa col Cavalcanti nel 1297) come originato, rispettivamente, dal lat. carnem levare o carnem laxare ossia ‘togliere la carne’ o ‘lasciare la carne’, riferiti al digiuno e alla penitenza della Quaresima. Si può osservare che i filologi romanzi si tengono la mano nel proporre uno stranissimo parallelo verbale tra fenomeni che invece sono antagonisti, confermandolo soltanto in forza della simiglianza sonora tra due locuzioni (carnevale = carnem-levāre), di cui la seconda è inventata di sana pianta, dacché nessuno storico della Chiesa, tantomeno nessuno storico laico, hanno tramandato questo paradossale parallelo il quale, se fosse maturato per qualche ragione nel mondo ecclesiale, qualcuno si sarebbe impegnato a rimarcarlo e giustificarlo. Così inventando, i filologi romanzi abiurano all’obbligo scientifico di esplicitare le ragioni storico-sociologiche (semmai ve ne fossero) che avrebbero portato a tale simiglianza fonica.
È strano che questo periodo di follia, di licenza, di capovolgimento degli usi, quello stacco-e-alternativa dalla vita quotidiana, debba ricevere il nome dal rigore e dalla severità di un periodo (la Quaresima) che si presenta in successione-contrapposizione al periodo precedente. I filologi romanzi, anche gli stessi storici, rinunciano ad indagare la ragione (semmai ci fosse) per cui la Chiesa avrebbe voluto porre in sequenza la Quaresima proprio col Carnevale e – surrettiziamente – avrebbe voluto sferzare le supposte sfrenatezze di questo con un severo “memento morī” legato espressamente alla carne. Sono assurdamente lambiccati ed inani gli sforzi di chi pretende trovare dei significati ideologici ad un nome (carnevale, carresegare) del quale non sa approfondire per vie interne gli aspetti semantici, che pure esistono, se solo li si volesse scrutare.
In verità, il sardo Carrasecáre, Carresegáre deriva dall’akk. qarnu(m) ‘potenza, potere’ (degli umani) + seḫu ‘rivoltarsi, distruggere, dissacrare’, col significato di ‘dissacrare il Potere, i potenti’.
Quanto all’it. Carnevale deriva dall’akk. qarnu(m) ‘potenza, potere’ (degli umani) + (w)âru(m) ‘andare contro, scontrarsi con’, col significato di ‘andare contro il Potere’.
L’it. Carnasciale (sardo Carrasciale) deriva dall’akk. qarnu(m) ‘potenza, potere’ (degli umani) + šalû(m) ‘sommergere, annegare’, col significato di ‘annegamento del Potere’.
Ma che cos’è, precisamente, il Carnevale? Andando alla ricerca delle sue radici, ogni ricercatore è affondato nelle sabbie mobili dell’ignoranza, e non è mai riuscito a legare i carnevali agli antichi Misteri mediterranei, da cui derivano. Il Carnevale è ritenuto un fenomeno tipicamente italico, espanso nel Medioevo per le aree neolatine assieme all’evangelizzazione: in Francia, Spagna, nell’Est Europa. Gli Spagnoli portarono il Carnevale in America. Ma che il Carnevale sia nato in Italia non è verosimile; e non è verosimile che la Chiesa abbia concesso il Carnevale come pendant della Quaresima. Certamente, soltanto in seguito, dovette farlo passare come tale, nell’ambito di una vasta offensiva ideologica che ricollocava e inglobava ogni festa popolare nell’àmbito di un calendario cristiano meticolosamente costruito come barriera assorbente, come Colonne d’Ercole, in un ambizioso programma che cancellava ogni altro tempo, ogni altra ritualità. Associare e modernizzare il Carnevale facendolo passare come novità concessa dalla Chiesa, tornava comodo al Vaticano al fine di fagocitare in un sol colpo le feste precristiane del Nuovo Anno: poiché quelle conservavano una dottrina assai più pericolosa della spensierata sfrenatezza consentita. In verità il Carnevale, nonostante sia stato reso inoffensivo nel volgere di numerosi secoli, non è mai stato simpatico ai preti.
Saturnalia, Bacchanalia sono un sottoinsieme latino delle grandi festività che tutte assieme davano corpo agli antichi Misteri mediterranei dei tempi arcaici. Erano feste originariamente orfico-pitagoriche (almeno quelle del mondo greco). In Sardegna invece furono importantissime le feste Adònie, i riti in onore del Dio della Natura che moriva e risorgeva, un rito conservato nella festa di su Pani de is Bagadìus a Siùrgus. Ma furono importanti anche altre feste, come ad esempio la grande processione notturna di san Francesco di Lula, e persino la grande processione laica dei Candelieri di Sassari (anch’essa seròtina-notturna); ricordo infine la grande processione di sant’Efisio, che si snoda da Cagliari a Nora, la quale esalta un santo cristiano che certamente ebbe a soppiantare a tempo dèbito l’effige di Adone morto, portato in processione notturna da Cagliari a Nora ed ivi, al sorgere del sole, sommerso nei flutti marini secondo l’uso semitico.
Tutti questi eventi, in origine, erano nient’altro che cerimonie orfiche che portavano in scena lo sconquasso dei processi naturali che l’uomo (e le donne) desideravano ripristinare. Erano rappresentazioni fortemente religiose, moralistiche come qualsiasi fenomeno religioso in cui, insieme con le sacre pantomime di generazione-rigenerazione recitate da uomini e donne mascherati, s’intrecciavano atti di scherno contro i potenti, a ricordo dei tempi arcaici in cui la gestione comunistica del villaggio non lasciava spazio all’emergere di figure prevaricatrici destinate al potere.
Ecco svelate le pantomime, le vere e proprie rappresentazioni teatrali in motu, che i Carnevali sardi ancora conservano mimando, con vario risalto secondo i villaggi, gli eventi fondamentali della vita di Adone, evidenziati in scene ripetute per l’intero percorso, con ruoli nitidi, o confusi, o capovolti secondo i villaggi. Quindi abbiamo, per esempio: 1. su Mamuthone che balla su ballu tzoppu, un ballo detto altrove bìkkiri, altrove sciampitta (chi avanza zoppicando evoca il dio Adone mortalmente ferito dal cinghiale all’inguine, incapace di camminare). 2. Il dio dell’Ordine (Marduk, o Mascatzu per la Sardegna) è rappresentato da s’Issoccadore, che tenta ripetutamente di prendere al laccio e raffrenare la scomposta sarabanda della folla mascherata (rappresentante il Chaos). 3. I duelli rituali tra due maschere con diversa caratza rievocano la lotta di Marduk contro Tiamat, del Cosmos contro il Chaos, rappresentati da s’Omadore che tenta di tenere al laccio s’Urtzu (il Chaos) bastonandolo e pungolandolo fino a renderlo esanime; tale “vittima” è presente sotto forma di capro, cervo, cinghiale, i quali sono ipostasi della bestia da cui fu ucciso Adone: di essa occorre imbrigliare la dissoluta potenza, perché rappresenta il Chaos che deve essere ridotto al Cosmos, all’ordine del Creato. 4. Zorzi (o Giogli) è considerato molto spesso il “Re” (la figura centrale) del Carnevale; in genere simula Adone morituro portato in processione funebre, seguito dal popolo mascherato che lo compiange, sino al luogo della sua sommersione o arsione, dal quale risorgerà. In Sardegna attualmente è praticata l’arsione, e tutto termina col rogo finale della sacra pantomima.
I Carnevali della Sardegna interna si differenziano l’un l’altro perché ciascuno ha conservato un momento diverso, o più accentuato, della rappresentazione paleo-neolitica. Figure vestite a lutto piangono la morte di Dio e con essa la fertilità che viene a mancare. Sono uomini col gabbano nero, cappuccio nero calato sugli occhi, volto annerito di carbone, pantaloni neri, gambali neri. Il nero copre tutto: segno di lutto profondo perché alla morte di Dio la Terra s’oscura e cessa di produrre.
In tal guisa i Carnevali della Sardegna Centrale – unici in Italia – mimano soltanto il dramma adònio, cui è legata l’evocazione della Morte e Resurrezione, la drammatizzazione dei riti agrari, il richiamo delle piogge; mentre respingono, o hanno dimenticato, i momenti della licenza verbale, retaggio di epoche d’uguaglianza che la contumelia, il veemente sproloquio tentano di ripristinare, almeno durante questi momenti di sfrenatezza, nei Carnevali più noti d’Italia.
Salvatore Dedola
Nell’immagine: l’incipit C, in Giampaolo Mele (a cura di), Die ac Nocte. I Codici Liturgici di Oristano dal Giudicato di Arborea all’età spagnola (secoli XI-XVII), Cagliari: AMD Edizioni, 2009