Attività sociale quotidiana del Circolo Culturale Sardo di Biella in tempo di pandemia.
Tra le attività più antiche dell’uomo, l’intreccio di materiali per ottenere contenitori utili per deporre, conservare e trasportare diversi materiali. Diffusa in tutto il mondo, adoperando vegetali diversi a seconda delle località, l’arte della cestineria veniva praticata in ambito domestico: pastori e contadini erano abili “picheddalzos”, “cestinai”, con manufatti prodotti durante le lunghe ore di vigilanza delle greggi o nelle interminabili veglie invernali.
Canna, asfodelo, steli di paglia, foglie di palma, rafia, giunco e altre piante flessibili, fluviali e lacustri, oppure giovani polloni di rovo, di salice, di olivastro o, in zona alpina, di castagno. Questi i più comuni materiali intrecciati per ottenere manufatti funzionali, oggi in parte sostituiti da materiali derivati dal petrolio. Codificati secondo modelli costruttivi precisi e ricorrenti, venivano arricchiti da decorazioni esteticamente gradevoli, sovente associate al sacro, quale elemento di protezione del contenitore, per una maggiore durata, e del contenuto, per una migliore conservazione.
Con la loro migrazione, i Sardi di Biella hanno portato con sé, come antichi Lari, insieme alla venerazione dei santi del loro Pantheon, alcuni oggetti di uso quotidiano, custoditi come reliquie. Taluni, oltre agli oggetti, hanno riattivato anche le tecniche di produzione.
Nella sede dell’Associazione, i cestini di uso corrente e quelli rituali, quali il grande cesto impiegato per la distribuzione delle mimose alla Festa della Donna, sono manufatti realizzati a Biella dalle abili mani di zio Agostino Angotzi, di San Giovanni Suergiu; altrettanto dicasi degli oggetti di sughero pirografato, opera di Salvatore Pilloni, di Siliqua; o degli intrecci con foglie di palma nana di zia Marianna Cabula, di Alghero; o delle decorazioni di piatti e altri oggetti in ceramica, creazioni di Renata Tuveri, di Guspini, presenti nel mosaico “piatti e cestini”.
È questo il frutto della collaborazione dei soci di Su Nuraghe, in tempo di pandemia.
Simmaco Cabiddu