Museo delle Migrazioni, Cammini e Storie di Popoli di Pettinengo – via Fiume, 12, visitabile tutte le domeniche dalle ore 14:30 alle ore 18:30 – Info e prenotazione: Idillio, 3343452685 – Ingresso libero.
Nella sala più grande del museo, quella che ospita la collezione dei cimeli della famiglia Martinero, originaria della Valle del Cervo e con forti legami con la Sardegna, si possono ammirare, appesi al muro di fianco alla finestra, due “quadretti” singolari di fine Ottocento. Il primo incornicia un panno ricamato con gli stemmi delle terre irredente (Ala, Riva, Istria Trento, Trieste, Dalmazia, Arco, Rovereto e Gorizia) unite da un serto di alloro sotto lo stemma reale dei Savoia. Il secondo è il ritratto fotografico del bandito Francesco Derosas di Usini “nato nel 1864 e condannato all’ergastolo il 2 ottobre 1894”. Ciò che stupisce è l’accostamento, ardito anche per i tempi, tra la figura di un romantico ed efferato fuorilegge divenuto una sorta di Santo laico, e lo slancio patriottico che traspare dalla volontà di vedere restituite all’Italia le terre ingiustamente sottratte al completamento dell’unità nazionale.
Entrambi i quadri sono appartenuti a Giorgio Martinero, classe 1844. Egli li teneva appesi in casa quando abitava in Sardegna e li ha poi esposti nella sua casa di Sassaia quando, da vecchio, è tornato al suo paese di origine nella Bursch. «Il mio bisnonno – ricorda Maria Martinero – era un fervente patriota, ma nel contempo ammirava il bandito di Usini perché lo riteneva un martire, un uomo ingiustamente perseguitato».
La storia di “Cicciu” Derosas ricorda in parte quella di Edmond Dantes, il Conte di Montecristo.
Accusato ingiustamente di aver preso parte a un omicidio, il mite Francesco si prende dieci anni di reclusione per complicità e falsa testimonianza. Liberato anzitempo per “buona condotta”, comincia a vendicarsi, a uno a uno, dei suoi accusatori, trasformandosi in una specie di Mister Hyde, altro famoso personaggio di romanzo più o meno di quel periodo. I suoi numerosi delitti di sangue sono particolarmente feroci. Per limitarsi a un solo esempio: spara in testa a una donna di trent’anni, incinta, e poi la sventra con il coltello per assicurarsi che il feto non sopravviva. Ma nonostante questo diviene ben presto un “eroe popolare”. Datosi alla macchia viene arrestato dopo un conflitto a fuoco, in cui muore un carabiniere. Recluso a Ventotene, vi muore fucilato nel 1902. Il suo corpo è gettato in mare con un peso legato ai piedi.
L’idea della vendetta a ben vedere è molto affine a quella della rivincita, e non a caso gli irredentisti francesi che dopo il 1870 “rivendicano” l’Alsazia e la Lorena si chiamano “revanscisti” (da “revanche”, di nuovo, vendetta). Ecco, forse, il legame tra i due quadri: la vendetta come possibilità etica di giustizia sociale slegata però dai codici comportamentali ufficiali, perché non contemplata né dalle leggi vigenti, né nella diffusa mentalità cattolica, la cui morale “ama il prossimo tuo, e porgi l’altra guancia” è esattamente agli antipodi.
Michele Careddu
Nell’immagine: Pettinengo, Museo delle Migrazioni, allestimenti d’ambiente. Ritratto del bandito Francesco Derosas di Usini