Estate a Pettinengo, “Ero di nessuno” libro di Giuseppe Anice presentato al Museo delle Migrazioni

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Domenica primo agosto alle 16,30, frazione Gurgo di Pettinengo, di fronte al Museo delle Migrazioni, Cammini e Storie di Popoli, in via Fiume 12, nell’ambito della manifestazione Estate a Pettinengo, Riccardo Pozzo racconta il libro di Giuseppe Anice “Ero di Nessuno”, una storia biellese tra Otto e Novecento.

Si tratta dell’autobiografia del bisnonno del relatore, finalista al Premio Pieve Santo Stefano nel 2014.
Le memorie del Pépé, così era chiamato Giuseppe Anice dai famigliari perché era stato più di vent’anni in Francia, sono un sunto formidabile della storia del Novecento, vista dal basso.
«Solo raccontare dà senso alla vita, sottrae peso alla colpa» ha scritto Pietro Clemente, forse il maggiore esperto italiano di antropologia delle storie di vita e principale promotore della pubblicazione del libro, di cui firma anche l’introduzione.
La forza dirompente della parola incisa sulla carta, la volontà di un uomo ormai anziano cui è appena morta la moglie, di restituire per sottrarla all’oblio la memoria della sua vita – soprattutto della sua infanzia – che nessuno oltre a lui può ormai più ricordare, è il miracolo che si può leggere nell’autobiografia di Giuseppe Anice, edita da Effigi nel 2019.
È la storia dolorosa di una vittima dell’abbandono, di una “vita esposta” all’ospizio di Biella due giorni dopo la nascita, il 2 giugno 1894. L’infanzia del trovatello biellese è segnata da “migrazioni” e soprusi di ogni genere. Il piccolo Giuseppe viene sballottato di stalla in stalla, da una cascina all’altra fino ai dodici anni, tenuto ai margini per brevi periodi da famiglie incrudelite dalla miseria, che lo prelevano dall’ospizio per sfruttarlo e ricevere la paga irrisoria del “baliatico”: «era solo per lucro di goderne il sussidio e sfruttare le tenere energie dei trovatelli senza mai darmi una minima prova di quel affetto che il cuore desiderava».
Essere di nessuno significa per Giuseppe principalmente due cose, non avere un posto nel mondo (né una casa, né affetti) e subire il disprezzo del prossimo: «Quello che subito mi ferì fu la reazione glaciale e sprezzante di quando seppero che ero figlio di nessuno. Per loro ero solo un “bastardino”, non degno di essere considerato e trattato come un civile. Per loro il mio nome era “il bastard” e questo era un insulto che mi faceva male. Mi sentivo degradato e umiliato come se davvero fosse mia la colpa del mio stato di Trovatello».
Il sentimento dell’abbandono marca la sua infanzia, ma anche quando rientra in istituto, tra un “affido” e l’altro, deve fare i conti con la crudeltà del sistema educativo dell’epoca, soprattutto con la “malvaggia” (con due G) assistente Giacinta, che – come racconta Anice «una volta, per non farsi male alle mani, quella tigre di donna mi picchiò con un pezzo di legno e per un poco mi durarono le livide impronte, ricordo che per il gran male piangevo disperatamente chiamando Mamma, un nome che mi era caro. Invocavo la sua protezione, ma la mia mamma non c’era, nessuno sentiva la pena mia, ero di nessuno».

Rinfresco finale dopo la conversazione con Riccardo Pozzo, guida del Museo delle Migrazioni, aderente alla Rete Ecomuseale Biellese

Michele Careddu

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