Omaggio dei Sardi dell’Altrove alla terra di accoglienza, “omagià daj Sardagneuj fòra ’d Finagi”
La parola “sfita” in piemontese vuole dire “una punta di dolore”, una trafittura acuta, di solito nel costato e nell’addome, ma a volte anche nei tendini, soprattutto quelli delle spalle. Parola comunissima, dunque, e tanto più frequentemente usata quanto più si va avanti con gli anni e aumentano, ahimé, gli acciacchi della vecchiaia. Un dolore di tale tipo, percepito a fitte frequenti e lancinanti si dice dolor a sfite (ricordiamo che la vocale “o” nell’ortografia piemontese corrisponde al suono italiano “u” e quindi “dolore” in piemontese si legge come se fosse scritto “dulur”). Ma se questo è l’uso corrente di questo termine, ben altro impiego ne fanno i poeti del Novecento, come in questo struggente inno del nostro indimenticabile Tavo Burat (biellese, per chi se ne fosse scordato o avesse perse le precedenti parole di questa rubrica): bandiere sgardamlà da lanse drite ò lambèj d’un liston d’argent a sfite [Tavo] = bandiere lacerate da lance irte o brandelli d’un drappo d’argento trafitto.
Beninteso, questo ampliamento semantico non è esclusivo della lirica piemontese contemporanea, ma è di tutte le letterature, in tutte le lingue, di ogni tempo. Lingua di popolo più creatività di poeta fanno di un dialetto una grande lingua. Nei suoi versi Tavo ha fatto proprio quello: ha elevato la lingua del suo popolo, ch’egli conosceva e studiava come nessun altro prima, a grande lingua letteraria.
Sergi Girardin (Sergio Maria Gilardino)
Nell’immagine: l’incipit “S”, in Missale Magnum Festivum Domini Georgii Challandi (sec. XV), Priuli e Verlucca 1993, copia facsimile posseduta a Biella dal Comm. Mario Coda