Omaggio dei Sardi dell’Altrove alla terra di accoglienza, “omagià daj Sardagneuj fòra ’d Finagi”
Abbiamo scritto in una delle rubriche passate, ciascuna delle quali è dedicata ad una parola della lingua piemontese, che anche se il Piemonte delle ere passate non s’affacciava sul mare, la sua lingua possiede tutta una serie di parole che descrivono piante, animali, pesci tipici delle zone costiere e delle acque mediterranee. Ma quando si tratta di descrivere la natura montagnosa dei suoi territori storici – anfratti e balze, dossi e dirupi – il piemontese possiede una gamma terminologica difficile da eguagliare, anche facendo appello al lessico di lingue nazionali, come l’italiano. Nella frase seguente, sempre uscita dalla penna del biellese Tavo Burat, abbiamo un esempio della dovizia e specificità terminologica del piemontese chiamato a descrivere il territorio ancestrale dei propri abitanti:
“Giù për ij burit e drutse, su për grup, l’orët passà, calà ant la dus ancreusa, rivà ant ël sit, miràcol t’i-j trovras doa at conteran soe vite e ’l mond përdù [Tavo] = Giù per depressioni e frane, su per ripidi pendii, oltrepassato il piccolo dosso, disceso nell’antro profondo, giunto nel sito, miracolo lì troverai, dove ti racconteranno le loro vite ed il mondo perduto …”.
Altrettale dovizia lessicale troviamo nel piemontese delle colline e in quello delle risaie, per non parlare poi di quello dei grandi laghi.
Ricordiamo a quante e a quanti ci seguono che nella millenaria tradizione scrittoria di questa lingua, la “o” non accentata si legge come una “u” italiana, la “u” si legge come in francese e la “e” sormontata dalla dieresi, “ë”, ha un suono quasi muto, come la “e” finale di parola in francese.
Sergi Girardin (Sergio Maria Gilardino)
Nell’immagine: l’incipit “A”, Sacramentarium Episcopi Warmundi (Sacramentario del Vescovo Warmondo di Ivrea): fine secolo X, Ivrea, Biblioteca Capitolare, Ms 31 LXXXVI). Priuli Verlucca,1990, copia posseduta a Biella dal Comm. Mario Coda.