Radici e semantica delle parole sarde, rivisitate mediante i dizionari delle lingue mediterranee (lingue semitiche, lingue classiche). Laboratorio linguistico, di storia e di cultura sarda a Biella
TÁCCURA è termine della Sardegna alquanto confuso, il cui uso si sta perdendo, o comunque si sta imbastardendo, poiché la pratica paleolitica da cui sortì primamente questa parola si sta ampiamente dimenticando, non solo nelle città ma pure in parecchi distretti linguistici.
Táccura è una delle decine di migliaia di parole sarde che provano ad abundantiam, se mai ve ne fosse bisogno, che il linguaggio originario nacque dal lavoro, la parola scaturì dall’attività economica dell’Homo (intuizione marxiana); pertanto, andando oggidì in obsolescenza l’attività economica da cui sortì la parola táccura, anche il suo concetto si sta logorando, obnubilando, frantumando.
Attualmente i molti dizionari che, villaggio per villaggio, vengono lentamente pubblicati nell’Isola ad opera degli intellettuali locali, forniscono le definizioni più variegate, dalle quali spunta spesso l’incongruenza, la parzialità, lo sforzo di concettualizzare “a freddo”, spunta insomma una ideologica elucubratio in absentia corporis. Táccura è una delle migliaia di “vittime” (se così vogliamo dire) che stanno auto-testimoniando il proprio dileguo dall’universo lingistico della Sardegna arcaica.
Eppure l’attività che soprassiede a tale parola è ancora vivissima nella Sardegna sud-occidentale, dove la caccia di frodo – ancor sempre praticata secondo la tecnica paleolitica (lacci e reti) – viene tollerata dalle guardie forestali, nella coscienza che certe attività, qualora annullate, creerebbero amputazioni dolorosissime nel patrimonio culturale e lessicale della Sardegna.
La pratica delle tácculas è talmente viva nel sud-Sardegna, che i bracconieri-confezionatori-venditori – consci del valore intrinseco di ogni táccula (che oggidì raggiunge i 100 euro), vanno apertamente a venderle persino al Teatro Lirico di Cagliari – notoriamente frequentato da gente benestante – nei giorni in cui il calendario della musica classica attira solennemente al sacro tempio le frotte di borghesi vestiti a festa. A me personalmente, per niente sorpreso dell’inusuale mercato operato tra tante signore profumate, imparruccate e vistosamente ingioiellate, è successo di pregare vivamente il bracconiere di presentarsi non a quell’ora (all’inizio dell’opera) ma al suo termine, all’uscita, poiché altrimenti non avrei saputo come portare in sala quell’olezzante pacco da macellaio. La mia contrattazione fallì perché gli acquirenti s’addensarono come mosche, e volsero l’asta della domanda-offerta a proprio favore.
Oggi a Sàssari e dintorni, ma pure in tutta l’Isola, per táccola s’intende un ‘uccello della famiglia dei corvidi’, un po’ come s’intende nella Penisola. Però nel Sassarese, in Gallura, in Logudoro e in Campidano per tàccula s’intende anche una ‘filza di tordi’; in ogni modo, osservate il sintagma unu pillon’e taccula‘un tordo’ (Cagliari). I tordi nel Cagliaritano si vendono a mazzetti, e dopo cotti sono infilzati in gran numero in uno spiedo di legno. Da queste apparenze Wagner dedusse che táccula dovesse derivare da it. attaccare ‘appiccicare’. Ovviamente sbagliò, per quanto l’area semantica non si discosti da quell’ambito.
La base etimologica di táccula è l’accadico ṭāḫ(u) ‘adiacente a’ + ulla ‘contemporaneamente’. A ben vedere, sin dai primordi questa pratica paleolitica formulò il proprio nome osservando non il singolo uccello ammazzettato ma l’intera sfilza di uccelli trafitti dallo spiedo, già pronti a impreziosire la mensa.
Salvatore Dedola, glottologo-semitista
Nell’immagine: l’incipit, “T”, in Giampaolo Mele (a cura di), Die ac Nocte. I Codici Liturgici di Oristano dal Giudicato di Arborea all’età spagnola (secoli XI-XVII), Cagliari: AMD Edizioni, 2009