Radici e semantica delle parole sarde rivisitate mediante i dizionari delle lingue mediterranee (lingue semitiche, lingue classiche). Laboratorio linguistico di storia e di cultura sarda a Biella
SARDÓNIOS GHÉLŌS, anche sardánion ghélōn, ossia ‘riso sardònico’.
L’aggettivazione di questa risata appalesa uno dei tanti errori interpretativi che le varie accademie fanno sulla cultura sarda.
La prima apparizione scritta collegabile a questa espressione è in Omero Od. XX 301-302, allorché Odisseo schiva la zampa di bue lanciata da Ctesippo e “ride sardonicamente” (μείδησε δε θυμῷ σαρδάνιον μάλα τοῖον ‘sorrise in cuor suo, per giunta sguaiatamente’: attenzione!, questa è la traduzione mia, che ritengo autentica).
Una dette tante enunciazioni del termine σαρδάνιον (stavolta come avverbio) si trova in Platone (Rep. I,337): Καὶ ὃς ἀκούσας ἀνεκάγχασέ τε μάλα σαρδάνιον ‘a queste parole egli si mise a ridere sguaiatamente’: anche questa è traduzione mia. L’unica ricostruzione arcaica cui è possibile agganciare l’aggettivo avverbiale greco è il composto egizio sar ‘to do wrong, act with perversity’ + ṭa ‘to smite’, shake, quake’ + ni ‘serpent poison’, nu ‘to grind’. Quindi possiamo interpretare come sar-ṭa-ni‘scuotersi perversamente e velenosamente’, oppure sar-ṭa-nu ‘scuotersi perversamente e rudemente’.
Ma tanti autori greci e latini seriori, nel rimpallarsi a vicenda un’incomprensione culturale sull’omerico-platonico σαρδάνιον, sono andati a sbattere su altri significati, cadendo nella paronomasia. Essi legano σαρδάνιον a un’erba speciale che fa morire tra spasmi di labbra e stridor di denti; senza peraltro aver mai pensato che Omero con l’avverbiale σαρδάνιον volle descrivere lapidariamente un Odisseo muto e serio, che non aveva affatto sorriso per la provocazione di quel prepotente ma aveva soltanto rimuginato nel proprio animo la giusta vendetta per un affronto lacerante che al momento suggeriva prudenza.
Oggi arriviamo all’ultimo esegeta, a Giulio Paulis (Nomi Popolari delle Piante in Sardegna 143 sgg.) che identifica nel sd. isáppiu la celeberrima (sic!) “erba sardonica” o “sardonia”. «Di tutte le specie di Oenanthe questa è la più velenosa. Provoca intossicazioni mortali, caratterizzate da fenomeni di violenta infiammazione gastro-enterica, accompagnati da brividi, sudore freddo, midriasi, angoscia respiratoria, convulsioni, delirio, stupore e talora anche sincope. Il succo della pianta fresca, quando entra in contatto con l’aria, assume un caratteristico colore giallo zafferano. Cresce nei luoghi umidi, soprattutto presso i corsi d’acqua… Possiamo arrivare alla soluzione… (del)… problema etimologico considerando la ricca tradizione del mondo classico relativa ad un’erba velenosa… la cui ingestione provocava la morte attraverso un quadro clinico caratterizzato da spasmi muscolari e contrazione delle labbra, con messa in evidenza dei denti come quando si ride, donde, a detta di molti autori antichi, l’origine dell’espressione gr. sardónios gélōs ‘riso sardonico’… Dioscoride, alex. 14, descrive l’erba sardonica come simile ad un ranuncolo… caratteristico della Sardegna (De materia medica 2, 175,1)».
Paulis cita vari passi di Dioscoride, nonché passi del suo interpolatore, e pure passi di Paolo Egineta 5,51, di Sallustio (hist.frg. II,10, apud Serv. Ad Bucol. VII,41), di Plinio (N.H. 20,116). «Da tutto ciò discende la conclusione che l’“erba sardonia” dell’antichità era l’Oenanthe crocata, la quale essendo un’ombrellifera molto somigliante al sedano selvatico, era definita da tutti gli autori antichi simile al sedano ed in particolare al sedano selvatico».
Paulis, nella convinzione errata che, al pari di quasi tutti i fitonimi presentati nelle stesse pagine, anche isáppiu abbia origini greco-latine, conclude così: «Dopo tutto ciò che abbiamo visto sulla tradizione del riso sardonico connesso con l’Oenanthe crocata, non può esservi il minimo dubbio sul fatto che isáppiu, voce oscura per il Wagner, in effetti derivi da risáppiu ‘sedano che provoca il riso’».
Ma Paulis sbaglia. Nel dargli merito di avere operato una vasta disamina ed una intelligente interpretazione delle fonti disponibili, contesto le sue deduzioni, che non sortiscono da un confronto fono-semantico tra tutti i termini mediterranei disponibili ma solo dal confronto tra voci greche. L’uso di cercare le etimologie greche frugando entro il solo dizionario greco è un grave peccato di partenogenesi, ossia è la convinzione ideologica che qualsiasi parola greca confermi la propria genesi in un parto verginale prodotto dalla sola matrice greca, senza contatti entro il bacino mediterraneo. Non ci si accorge che questa procedura sta agli antipodi della tecnica etimologica, la quale impone lo scavo ed il confronto tra le lingue, anche le più arcaiche, sino a trovare la giusta radice.
Tutte le descrizioni dell’erba (anzi delle varie erbe simili), nonché le arbitrarie commistioni e confusioni fatte dal Paulis tra ranuncoli ed ombrellifere, sono assai discutibili; come sono discutibili gli effetti nell’ingerire l’Oenanthe crocata. Soltanto della cicuta si hanno certezze, mentre la Oenanthe crocata è stata da me mangiata parecchie volte senza conseguenze.
Sul riso sardònico si potrebbe scrivere un libro, ma sarebbe sprecato, perché parlare dell’erba sardònia o del riso sardónio(peraltro riferito ciecamente alla Sardegna) è come parlare del sesso degli angeli. Nella narrazione su questo appellativo ognuno degli autori si è voluto garantire previamente dall’errore, entrando nel vortice del plagio collettivo, ossia ripetendo acriticamente le affermazioni dei colleghi (non si sa mai che la distinzione possa nuocere…), magari aggiungendo o sottraendo il tanto che basta a confermare il proprio contributo accademico.
In tal guisa l’ignoranza e la presunzione governano il campo, e non si tiene conto della fiabesca distanza tra Grecia e Sardegna, un’isola che i Greci omerici non avevano mai visto ed alla quale, considerata la sua dislocazione nel mitico Occāsŭs Sōlis, potevano conferire a man salva tutti i misteri mediterranei covati dalle civiltà dell’epoca. Tutto ciò portò poeti e pensatori a girare su se stessi sino a parare in una messe di paronomàsie che si stratificò ed ammuffì col passare dei secoli.
Il riso sardónio puzza di marcio. Pertanto c’è bisogno di dare la giusta interpretazione al passo omerico, ed ognuno è autorizzato ad eventuali proposte migliorative rispetto alla mia: ma esorto a formularle con intelligenza e con autonomia di giudizio. Inoltre, considerato che i pensatori greci si scambiarono e barattarono un riso che, francamente, non poteva essere sorto dal nulla, occorrerebbe apparecchiare a questo riso, se non una cornice storica, almeno una cornice proto-storica, sempre però nell’alveo della logica.
Peraltro, se qualcuno volesse rifiutare senza ragione l’etimologia da me proposta, potrei servirgli con riserva una seconda etimologia legata al sumerico šar ‘vacca’ + du ‘imprigionare’: šar–du ‘imprigionare entro la vacca’. In tal caso il gr. σαρδάνιον rappresenta l’urlo lacerante emesso dai moribondi entro il ventre metallico surriscaldato di questo arnese inventato dai Cretesi. Altri lo chiamarono Toro di Faláride perché donato al tiranno Falaride di Agrigento da Perillo ateniese. In tal caso interpretiamo il sardónios ghélōs come un qualcosa di orribile che oggi noi, gente senza memoria, possiamo fanciullescamente intendere come ‘risata smodata, plebea, esagerata, chiassosa, urlante’. Ma tutto ciò non autorizza a tirare in ballo la Sardegna!
Salvatore Dedola, glottologo-semitista
Nell’immagine: l’incipit, “S”, in Giampaolo Mele (a cura di), Die ac Nocte. I Codici Liturgici di Oristano dal Giudicato di Arborea all’età spagnola (secoli XI-XVII), Cagliari: AMD Edizioni, 2009