Biella – Venerdì 16 ottobre, alle ore 21, nelle sale del Circolo Culturale Sardo Su Nuraghe di Biella, Piero Pinna presenterà il libro “Accabadora” di Michela Murgia. Un’occasione per conoscere alcuni aspetti della nostra Isola attraverso l’opera della giovane scrittrice che recentemente ha ricevuto a Villacidro il 1° Premio Nazionale “Giuseppe Dessì” per la Letteratura. Nel sapere popolare, ancor più che nell’immaginario, sa femina accabadora è la donna chiamata a porre fine alle sofferenze dei malati terminali; tema attualissimo che ha appassionato le cronache recenti su argomenti antichi quali l’eutanasia, che verrà presentato, attraverso il filtro del mito, in un universo fantasioso/fantastico, tra realtà e leggenda popolare.
Prima che la struttura archetipa dell’iniziazione alla morte di cui ci parla il dottor Carl Gustav Jung ne “L’uomo e i suoi simboli” venisse studiata attraverso l’analisi dei sogni, nel mondo della tradizione erano ben presenti strategie atte a chiudere l’esperienza della vita, esprimendo personaggi come “s’accabadora” per mettere fine ad inutili sofferenze.
Nei racconti popolari sardi, alcune vicende si incernierano sul ruolo di vecchi, la vecchiaia e la sua conclusione drammatica giù dalla rupe, di s’istrampu, il precipizio, uno dei tanti presenti in Sardegna, da cui lasciarsi cadere assistiti dal primogenito in una sorta di parricidio, scongiurato all’ultimo momento nelle mitigate più recenti versioni.
A tutti noi, uomini e donne che viviamo il tempo della postmodernità che sancisce i diritti dei viventi, primo fra tutti, degli umani, fa orrore il pensiero della morte, ancor più quello della morte comminata.
Nel disincantato universo del presente, la morte è uno dei tabù non ancora infranto. Francescanamente, di “Sorella Morte”, unica certezza della vita, non si parla affatto.
Eppure, proprio con l’affacciarsi alla vita, inizia il conto alla rovescia che ha dato origine a diverse elaborazioni e correnti di pensiero.
Secondo Lucio Anneo Seneca, un pensatore dei primi anni della nostra era, la morte procurata attraverso suicidio non solo sarebbe lecita ma addirittura “doverosa” specie “quando l’uomo non è più libero o quando non può più applicare la virtù”.
Sono molto noti i brevi racconti raccolti nelle Epistulae morales ad Lucilium, le “Lettere a Lucilio”, in particolare la numero 70, relativa ad alcune considerazioni sul suicidio: “La vita, come sai, non sempre merita di essere conservata – afferma Seneca – Non è un bene vivere, ma il vivere bene. Perciò il sapiente vivrà tutto il tempo che ha il dovere di vivere, non tutto il tempo che può vivere. Vedrà lui dove dovrà vivere, in quale società, in quali condizioni e in quali attività. Egli pensa sempre quale sarà la vita, non quanto debba durare. Se gli si presentano molte disgrazie che turbano la sua serenità, dà l’addio alla vita. E non lo fa solo nell’estrema necessità” […] L’importante non è morire più presto o più tardi, ma morire bene o male. Ora, morire bene significa sfuggire al pericolo di vivere male“.
Sullo sfondo di queste argomentazioni si intravede la bellicosa Sparta del IV secolo a.C, la sua rupe Tarpea, alle pendici del Monte Taigeto, dalla quale si gettavano i nati deformi per evitare a loro e ai congiunti un’esistenza infelice.
L’irrompere sulla scena della storia del pensiero cristiano ha scalzato via via antiche pratiche e sostituito nuovi valori incardinati sulla centralità della vita, sempre e comunque.
La presentazione del libro “Accabadora” ci ri-porterà in un universo altro, quello da cui ci giunge la lontana eco della fine della vita.
Battista Saiu
Michela Murgia
La giovane scrittrice, nata a Cabras nel 1972, ha pubblicato nel 1976 il suo primo libro: “Il mondo deve sapere”, nel 2008; “Viaggio in Sardegna, undici percorsi nell’Isola che non si vede”, nel 2009; “Accabadora”, nel 2009, con il quale ha vinto il 1° Premio Nazionale “Giuseppe Dessì” per la Letteratura.
Il libro parla di un mondo antico fatto di regole non scritte, ma ferree; di usanze tramandate; di patti tacitamente condivisi che regolano la vita della comunità.
Viene messa in rilievo la condizione de “i fillus de anima”, ovvero i bambini adottati attraverso un semplice accordo tra due famiglie (l’autrice stessa ha vissuto l’esperienza di aver avuto due madri), un aspetto autobiografico del racconto.
Protagonista è sa femina accabadora, figura mitica radicata nell’immaginario popolare, tramandata oralmente fin dai tempi antichi, amplificata dalla fantasia e dalla cultura orale, arricchita da riferimenti a persone e a fatti realmente accaduti.