Nell’ultimo periodo si è fatto qualche breve cenno alla solidarietà, al dono e all’altruismo, focalizzando l’attenzione sui substrati culturali che stanno alla base di tali concetti. In particolare si era tentato di sottolineare come il termine solidarietà indichi un atteggiamento benevolente e comprensivo, gratuito, atto a venire incontro alle esigenze e ai disagi di qualcuno che ha bisogno di aiuto. Si è inoltre evidenziato come lo stesso vocabolo dono porti in sé l’idea della relazione, dei rapporti umani, presupponendo, così, un valore, una dignità insita nel soggetto destinatario che, specie nell’ottica giudaico-cristiana, è sempre e comunque presente, a prescindere dall’etnia, dalle origini, dalla salute, dalla capacità economica e dalla cultura dell’individuo coinvolto, in quanto gli esseri umani sono stati creati ad immagine e somiglianza di Dio (Genesi I, 26-27) ed, in quanto tali, appartengono alla “grande famiglia umana” nella quale esiste una sorta di dovere morale ad essere solidali gli uni con gli altri, sia nel bene sia nel male. Simone Weil, a tale proposito, riteneva che la più grande grazia fosse di sapere che gli altri esistono (Cfr. O.Clément, Le feste cristiane, Ed. Qiqajon – Comunità di Bose, Magnano, 2000, p. 92): ciò richiama il concetto di “vita insieme“, la koinonía, la messa in comune della vita e non solo dei beni e dei talenti, carattere costitutivo ed, al tempo, distintivo delle comunità dei primi Cristiani del I secolo d.C. (Atti degli Apostoli II, 42-45; IV, 32-35).
Una condotta di vita mossa dall’amore gratuito, un modus agendi che si conforma al precetto universale sancito nel Vangelo di Luca (Cap. X, 27): «Ama il prossimo tuo come te stesso», e ad un corollario parafrasato consistente nel “fare agli altri ciò che si vorrebbe essere fatto a se stessi“. D’altronde lo stesso Catechismo della Chiesa Cattolica (Parte III, Sezione I, Capitolo II, Articolo 3, par. 1936) afferma che : «L’uomo, venendo al mondo, non dispone di tutto ciò che è necessario allo sviluppo della propria vita, corporale e spirituale. Ha bisogno degli altri». Solo la condivisione e la relazione, fonte di bellezza e di senso, sono quindi in grado di apportare un contributo determinante verso la pienezza della vita e la felicità (Cfr. L.Manicardi, Tristezza e ricchezza, Ed. Qiqajon – Comunità di Bose, Magnano, 2006, pp. 7-8).
Nel concreto la solidarietà si sostanzia in un iter esistenziale non certamente agevole: ci si incammina, infatti lungo un percorso che si nutre di tempo, di costanza e, spesso, di fatica, in quanto esso può essere disseminato di varie insidie. Da una parte esiste il rischio che quanto si faccia si traduca in un mero attivismo, in un egoismo che si sostanzia in una “fuga nel fare”, un cattivo amore di sé nel quale l’altro diviene un mero strumento, un rifugio di propri lati d’ombra, da un altro lato l’azione apparentemente solidale può spesso sostanziarsi nell’attuare una sorta di mero tributo a compensazione di quello che possiamo chiamare “senso di colpa” o sorta di disagio personale alla vista delle difficoltà altrui: una speciale una tantum in grado di garantire la “pace”, l’amnistia delle coscienze. Altre volte ancora quella che sembra generosità nasconde un filantropismo volto alla raccolta del consenso, onde ottenere un riconoscimento almeno di immagine. In ogni caso tali situazioni garantiscono almeno un qualche effetto positivo nel destinatario della “generosità ibrida”.
Altre volte non esiste neanche il detto “minimo” di solidarietà, ma si presentano nell’esistenza umana dei veri e propri nuclei di morte, degli abissi costituiti dalla paura, dalla “fuga” dalle responsabilità, specie in occasione di esperienze tangibili e significative di sofferenza e dolore, binomio di circostanze esistenziali totalizzanti e in grado di porre la domanda sul reale senso della vita (Cfr., in Kos, Nuova serie – Anno II, n. 11, Novembre/Dicembre 2008, “Vincere la sofferenza“: V.Mancuso, Vincere il dolore?, pp. 41-47; U.Galimberti, Risposta greca e cristiana alla sofferenza, pp. 49-60). La sofferenza ed il dolore, infatti, ingenerano intorno a sé timore, conformismi superficiali e pregiudizi dequalificanti, isolando il soggetto avvolto nella “valle” dei dolori e della disperazione, costringendolo a sua volta, talora, ad una reazione di chiusura difensiva contro ogni occasione che porti in sé anche le minime potenzialità di attacco (Cfr. A.Jollien, Il mestiere di uomo, Ed. Qiqajon – Comunità di Bose, Magnano, 2003, pp. 27-42).
La situazione diventa ancora più complessa ove le esperienze di dolore e sofferenza vengano a tangere la cerchia dei più vicini o dei spesso frequentati, a partire dai membri della propria famiglia: paradossalmente, proprio in questi casi può essere più complicato volgere lo sguardo ed intervenire, perché più totalizzante ed impegnativa è la risposta richiesta. Senza nulla togliere alla solidarietà fatta attraverso la cessione di beni a soggetti distanti, diversa circostanza è avere presente e tangibile il dolore nel proprio quotidiano, presso le persone che si hanno accanto, convivendoci insieme per buona parte delle giornate. La risposta non può che essere sicuramente più gravosa e spesso, nei relativi rapporti coinvolti, inoltre, si tende a dare per scontate dinamiche relazionali che tali non sono, dando così luogo ad una falsa rappresentazione della realtà nei soggetti protagonisti. Spesso amici e vicini possono addirittura minimizzare l’altrui sofferenza, tendere a vedere nel sofferente un inutile quanto insopportabile vittimismo (Cfr. A.Jollien, cit., p. 73) non sempre rispondente al vero, in quanto talora l’uomo dei dolori può trovarsi in situazioni di prostrazione e sofferenza tali da rasentare l’incomprensibilità all’esterno. Altre volte ancora, specie nei casi in cui il soggetto che si ammala o si viene a trovare in una situazione di bisogno abbia rivestito per anni ruoli od immagini di riferimento e di “integrità”, al momento della “caduta”, dell’epifania del dolore, può suscitare negli altri disorientamento, incredulità e sgomento: in tali casi sorge la domanda su chi sia la vera vittima tra il sofferente e l’interlocutore e, paradossalmente, viene a crearsi pure una situazione di reciproco bisogno nella quale vengono a subentrare i rispettivi punti di vista, talora dai tratti fortemente egoistici.
Le occasioni di dolore, affrontate con coraggio da entrambe le parti, possono tuttavia essere un’occasione di bene, di crescita personale, un vero e proprio tesoro esistenziale, similmente a quanto rinvenibile in un esemplare racconto della tradizione ebraico-chassidica nel quale si segnala come esista «… qualcosa che tu non puoi trovare in alcuna parte del mondo, eppure esiste un luogo in cui la puoi trovare…», ossia il “luogo” in cui ci si trova (Cfr. M.Buber, Il cammino dell’uomo, Ed. Qiqajon – Comunità di Bose, Magnano, 1990, pp. 57-64), la circostanza per raggiungere un vero e proprio compimento dell’esistenza, che può venire proprio dall’incontro con il prossimo bisognoso. La stessa antica tradizione patristica ha messo all’erta dall’abbaglio del cosiddetto “altrove”, segnalando come: «Se ti trovi in un luogo e cerchi di fare qualcosa di buono e non ci riesci, non pensare che potresti riuscirci altrove (N 446)» (Cfr., S.Chialà e L.Cremaschi – a cura di, Detti editi ed inediti dei Padri del deserto, Ed. Qiqajon – Comunità di Bose, Magnano, 2002, p. 111). Tale risultato o, meglio, detta consapevolezza alla base dell’azione richiede un mutamento dello sguardo, una messa in discussione degli schemi comuni. Celebre a riguardo si presenta l’episodio della vita di Francesco di Assisi, il quale rivoluzionò ogni schema relazionale del suo tempo determinato dalla paura e dal pregiudizio baciando un lebbroso, il soggetto della società più infimo ed evitato nella sua epoca (Cfr., C.Frugoni, Vita di un uomo: Francesco d’Assisi, Einaudi, Torino, 2009, pp. 22-23). Ma sono anche gli stessi sofferenti a poter insegnare a vivere (Cfr. A.Grün, Così ama un uomo, S.Paolo, Milano, 2007, p. 114), anche perché possono aver imparato sulle proprie spalle ed a proprie spese in cosa consista l’arte di vivere e di cavarsela, di riuscire ad apprezzare ciò che è essenziale nella vita (Cfr. A.Jollien, cit., pp. 33-48), perché, come diceva Erasmo da Rotterdam oltre cinque secoli or sono, in fondo: «Non si nasce uomo, lo si diventa».
Ma come attuare il bene allora? In tali circostanze, citando le parole del teologo Bernard Lonergan, «Il bene è sempre concreto»: davanti al dolore, infatti, occorre agire piuttosto che parlare, tacere presenziando (Cfr. A.Jollien, cit., pp. 33 e 41). Già la tradizione ebraica rintracciabile nel Vecchio Testamento delineava come per stare vicino al sofferente fosse opportuno e magnanimo accompagnare il dolore altrui solo con la propria presenza silenziosa, senza spreco di inutili parole causa di distanza e di giudizio, come evincibile nel celebre episodio-archetipo presente nel libro di Giobbe laddove gli amici del giusto sofferente stanno dapprima presso di lui per sette giorni e sette notti (Cap. II, 13) e successivamente lo ricoprono delle loro argomentazioni sui motivi della sua triste sorte (Cfr. A.Grün, cit., pp. 109-110). Provando ad ascoltare il racconto di chi abbia avuto la parte di protagonista nella sofferenza, raramente ci si imbatte in soggetti che testimonino il fatto che la presenza di una persona cara non sia stata la cosa in assoluto più preziosa, il sostegno per crescere, sperare e non deperire (Cfr. A.Jollien, cit., p. 41). D’altronde la stessa letteratura del Novecento afferma come uno dei nomi di Dio sia proprio «Le silence entre deux amis» (trad. lett.: Il silenzio fra due amici) (Cfr. M.Yourcenar, I trentatré nomi di Dio, I sassi nottetempo, Roma, 2003, p. 27), ove l’amicizia costituisce quello che Aristotele, nel IV Secolo a.C., definiva il conforto nell’avversità, il sale della vita, immagine ripresa nel Vangelo di Matteo (Cap. V, 13), laddove si definisce il cristiano, testimone di Cristo crocifisso, icona dell’uomo, «il sale della terra», in quanto, nel caso di specie, fonte di conforto e di sforzo nella comprensione, soggetto che si astiene da ogni giudizio verso la caduta dell’altro senza, tuttavia, tollerare sterili rassegnazioni da parte di quest’ultimo (Cfr. A.Jollien, cit., p. 74).
Gianni Cilloco
Nell’immagine: i migliori spiedi di Su Nuraghe dell’edizione 2009.