20 settimane di lezioni a partire da giovedì 13 gennaio 2005
“A chi appartengono questi sentimenti? A voi o al personaggio?”
Il teatro, quando è emozione che coinvolge, quando è parte della vita culturale, quando vi sono gli strumenti perché possa essere realizzato con un certo criterio, diventa nutrimento sociale. È un momento collettivo che tocca tutti, da chi mette in piedi uno spettacolo, a chi lo guarda, è occasione di crescita e di riflessione.
Dai pensieri più intimi di un singolo individuo, ai suoi rapporti privati e sociali, fino ai grandi momenti storici che ci coinvolgono e hanno coinvolto le generazioni passate, l’uomo ha la capacità di guardare se stesso e giudicarsi. Lo fa attraverso quest’obiettivo dalle infinite lunghezze focali capace di trasformarsi in microscopio per vedere/scoprire ogni angolo della coscienza (penso ai monologhi di Eduardo alla fine delle sue commedie come analisi finale sulla meschinità della “piccola gente”, sull’ipocrisia, sulla paura del giudizio altrui, su come l’esteriorità spesso nasconda verità opposte alle apparenze; penso a Pirandello e al gioco delle maschere, al senso e la gusto della vita che scorre e non si lascia assaporare dall’uomo dal fiore in bocca) per poi diventare telescopio e raggiungere e ridimensionare le grandi questioni sia contemporanee che storiche (Adamov ne “La primavera ’71” racconta la rivolta operaia che diede vita alla Comune di Parigi nel 1871, Brecht ragiona con la forza disperata dell’ironia sul dramma della seconda guerra ne “La resistibile ascesa di Arturo Ui” e in “Svejk nella seconda guerra mondiale”).
Attraverso la descrizione/rappresentazione di una data realtà, siamo chiamati a mettere in evidenza la complessa struttura di cause/effetto che porta una nicchia della collettività ad essere così com’è. L’esempio lampante è quello del “teatro delle diversità“. Il teatro nelle carceri, nelle comunità per anziani, disabili, portatori di handicap, ma anche in ospedali, scuole ecc., è medicina, è formazione.
James Dean ha detto: “Il compito dell’attore è quello di interpretare la vita“. Il teatro è rivolto ed è di tutti poiché esso è la rap/presentazione della vita ed, essendo la vita la sorgente energetica di cui più concretamente disponiamo, nella sua “reale” raffigurazione. Che non può esistere passività lo possiamo capire dall’etimo stesso della parola. Teatro deriva dal greco “guardare”. Intendo questo “guardare” come un’azione positivamente attiva, come propensione alla ricerca, all’analisi e alla critica. Gli attori si guardano dentro e attorno, analizzano, ricercano. Il pubblico guarda l’esito di questa ricerca, l’analizza, la critica, può condividerla o meno con l’applauso, con il silenzio o allontanandosi dalla sala prima ancora della fine dello spettacolo. Questo non è possibile con la televisione, con il cinema o con un articolo di giornale.
In questi casi il pubblico può al massimo cambiare canale o smettere di leggere, ma questo non impedirà la diffusione del messaggio, né ne modificherà in alcun modo i contenuti.
In teatro le sensazioni che vibrano in scena vengono trasmesse ad un pubblico che reagisce e rimanda le sue impressioni in direzione del palco modificando inevitabilmente il comportamento di chi recita.
È uno scambio vivo e immediato. Nessun’altra forma letteraria è così terrena. Non solo, leggendo un testo teatrale, possiamo immaginare i personaggi di una trama, ma abbiamo la possibilità di agire come loro. Gli attori “raccolgono” parole, gesti, umori ben delineati presenti nel copione e se li “appiccicano” addosso modificando, dimenticando, la propria persona, trasformandosi in un altro essere. Costui sarà talmente autonomo nelle sue caratteristiche interiori ed esteriori, che potrà persino permettersi di abbandonare a tratti un testo prescritto o non usarlo mai. Scrive Tonino Conte, autore e regista, nel suo “Facciamo insieme teatro“, scritto a quattro mani con Emanuele Luzzati, indubbiamente uno dei più grandi scenografi del nostro tempo: “Il teatro è qualcosa di particolare che solo in se stesso trova la sua ragion d’essere: riesce infatti a esprimersi pienamente anche senza l’ossatura di un testo letterario vero e proprio“. Fare teatro è mettersi in gioco in prima persona, usare il proprio corpo, tirar fuori le proprie emozioni e le proprie esperienze in modo costruttivo… alla faccia di chi sostiene che il teatro è pura finzione. Il corso che quest’anno porto al circolo, oltre a dare un’infarinatura generale su alcune tecniche attorali, avrà un occhio di riguardo per il cabaret. Il comico, partendo dal quotidiano, filtra la realtà e la distorce come più gli pare, in totale libertà. Questo sfogo/ribellione contro l’appiattimento delle regole e delle consuetudini, diventa gioco e attraverso di esso, momento di apprendimento dell’arte teatrale.
Mirko Cherchi