Sabato 19 aprile 2014 – Lo scorso fine settimana, Su Nuraghe Film ha messo in cartellone Su Re di Giovanni Columbu, un film sperimentale e innovativo. A Biella, la serata di lezione, affidata a giovani Sardi di seconda e di terza generazione “per conoscere la Sardegna attraverso il film d’autore”, è stata tenuta da Gianni Cilloco. Un modo singolare di partecipazione alla Passione di Gesù in vista della Pasqua che domani verrà celebrata, attraverso un film controcorrente, con belle immagini, ricco di pathos e di tensione emotiva, fatto di sospiri e di silenzi, con espessività affidata a gesti e a sguardi in un mondo ubriaco di parole. Scarno il veicolo linguistico con rare espressioni in lingua materna, il Sardo, che, sempre più dimostra essere una lingua normale, al pari delle altre nelle diverse geografie del mondo.
Di seguito, gli appunti della “lezione di cinema” di Gianni Cilloco, con rimandi e collegamenti internet.
Simmaco Cabiddu
Appunti di lezione per aiutare a leggere il film «Su Re»
“Su Re” è un’opera cinematografica che per diversi suoi tratti si staglia lungo la scia tracciata dal “Cesare deve morire” dei fratelli Taviani (cfr. G.Capolino, Torino 2012 – Su Re: recensione in anteprima – Concorso -, in CINEblog.it), lavoro premiato con l’Orso d’oro al Berlinale Internationale Filmfestpiele di Berlino del 2012.
La pellicola del cineasta sardo ha però ricordato alla critica maggioritaria il celeberrimo lungometraggio Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini, produzione premiata alla XXV Mostra del Cinema di Venezia del 1964, allora commentata quale sorta di “scandalo annunciato”.
Cerchiamo con questo scritto di evidenziare, modestamente, alcune delle analogie e delle varie differenze intercorrenti tra l’opera di Columbu e il film pasoliniano – utili per un’analisi ed una lettura più approfondita di Su Re – che, in questa sede, non possono che essere sintetiche e riassuntive:
Riguardo al contesto ispirativo: nelle parole dello stesso Giovanni Columbu, il film nasce da un’ispirazione artistico-spirituale: «Anni fa nella chiesa di Santa Maria in via Lata – racconta il regista, già autore di programmi tv, documentari e del film Arcipelaghi – fui colpito da una mostra sulla Sacra Sindone: una tavola riportava su quattro colonne i brani dei Vangeli che descrivevano i patimenti inflitti a Gesù. Li ho riletti in maniera trasversale e il film nasce proprio dalla commozione di fronte a questi testi interessanti nel testimoniare l’incertezza della verità e moderni nella loro struttura seriale, reiterativa, la stessa usata nei ritratti di Andy Warhol» (cfr. A.De Luca, “Su Re”, i Vangeli in sardo, in Avvenire, 28 Novembre 2012). Il film pasoliniano degli anni ’60, invece, si presentava come opera perfettamente integrata politicamente nella sua epoca di produzione, dedicata alle persone di buona volontà – in primis papa Giovanni XXIII -, in un contesto socio-culturale nel quale, peraltro, vive erano ancora le polemiche che avevano accompagnato nel 1963 la proiezione del cortometraggio “La ricotta”, episodio del film RoGoPaG. per il quale l’artista era stato denunciato per il reato di oltraggio alla religione. In Pasolini «emerge una figura umana, più che divina, di Cristo che, anche se ha molti tratti di dolcezza e mitezza, reagisce con rabbia all’ipocrisia e alla falsità. È un Cristo sorretto da una forte volontà di redenzione per le vittime della istituzionalizzazione della religione operata dai farisei “sepolcri imbiancati”, che l’hanno adottata con ipocrisia e iniquità quale strumento di repressione politica e sociale. È un Cristo che non è venuto a “portare la pace ma la spada”, perché sia possibile accedere al regno di Dio con cuore puro “come quello dei bambini”» (in http://www.pasolini.net/cinema_vangelo.htm).
Sulla classificazione dei film: «a differenza del film di Pasolini, narrativo e verista, il Su Re di Columbu è un film naturalista in cui la storia procede con ritmo sgrammaticato e privo di linearità, un film nel quale non si celebra la parola di Gesù e neppure, propriamente, si racconta una storia» (cfr. R.Bianchet, «Su Re», http://www.confronti.net/confronti/2013/07/un-film-molto-religioso-dove-non-ce-spazio-per-la-religione/).
Con riferimento alla scelta dell’ambientazione: in Su Re «Il trasferimento in Sardegna concorre all’universalità della storia, così come la frase più volte ripetuta, e presente solo nel Vangelo di Matteo: “Se è innocente, che il suo sangue ricada su tutti noi”, non allude alla colpevolezza degli ebrei ma a una sorta di maledizione per l’umanità». (cfr. A.De Luca, “Su Re”, i Vangeli in sardo, in Avvenire, 28 Novembre 2012). «Nelle immagini del regista, il racconto si fa scabra e scarnificata rappresentazione di un dramma universale, diventa resoconto di una umanità che diventa divina nella sopportazione del dolore, nella certezza di un ritorno dopo la morte» (cfr. G.Cavalli, Incontro con il regista Giovanni Columbu, in TIP 502, Aprile 2014). Peraltro la scelta della location di ripresa si pone in continuità ed avanguardia non solo casuale rispetto al cinema americano, in quanto Su Re è stato «girato a Oliena, sui picchi del monte Corrasi, stesso set in cui Houston ambientò gli ultimi cinque minuti della sua Bibbia» (cfr. D.Zonta, Columbu: il suo Cristo sardo sarebbe piaciuto tanto a Mosè, in L’Unità, 28 Novembre 2012. Nonché: S.Naitza, L’universalità del Gesù sardo raccontato dai volti degli umili, in L’Unione Sarda, ripreso in http://www.fondazionesardinia.eu/ita/?p=4959). Pasolini scelse di girare la sua pellicola nel Sud d’Italia, dove culturalmente – come ricorda la critica cinematografica e di matrice antropologica – «le pietre sono parole e viceversa»: la stessa voce di Cristo risuona evangelicamente “come e nei” sassi.
In merito all’immagine: Su Re guarda alla pittura, in particolare a Hieronymus Bosch e a Pieter Bruegel, con la sua opera “Salita al Calvario. «Più in generale per il tono con cui il pittore fiammingo osserva la tragedia umana, la sua mostruosità folle e innocente che rimanda, nel film, all’espressività sommessa e rassegnata dei sardi» (cfr. S.Naitza, cit.). «Lontano dalla tradizionale iconografia cristiana che vuole Gesù biondo e con gli occhi azzurri, il Cristo interpretato da Fiorenzo Mattu non è certo bello, ma rimanda a una dimensione interiore visibile solo ai puri di cuore e corrisponde piuttosto all’unica descrizione che precede i Vangeli, contenuta nella profezia di Isaia: “Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per potercene compiacere”» (cfr. A.De Luca, cit.). Il film pasoliniano richiama – secondo più commenti -, all’opposto, le pitture sicuramente più serene e meno tormentate di Duccio e di Piero della Francesca, riempiendo, tuttavia, al contempo, l’immagine anche dinamicamente.
Circa la trama: Il Vangelo secondo Matteo è una pellicola lineare, alla lettera fedele alla storia narrata nel Vangelo sinottico di riferimento. Il film del regista nuorese, invece, «offre una lettura trasversale dei Vangeli di Giovanni, Matteo, Luca e Marco, ambientando le ultime dodici ore della vita di Gesù (…) attraverso un coro di volti, di corpi irregolari, ruvidi come la natura che li circonda, di voci che raccontano la storia dell’uomo Gesù (…) scelta accentuata dal ritmo che guida le riprese vertiginose, dai ripetuti flashback e dal montaggio frammentato, quasi schizofrenico, che travolge lo spettatore lasciandolo privo di punti di riferimento» (cfr. R.Bianchet, cit.). In tal modo Columbu «decostruisce la linearità narrativa della vicenda (…) come in un sogno continuamente interrotto che scorre su un nastro di Escher difettoso, brandelli della vita di Cristo sono posti costantemente in relazione con la morte sulla croce» (Micromega Cinema, Dicembre 2012). In Pasolini, invece, solo a partire dalla sequenza dell’ingresso di Gesù in Gerusalemme «l’obiettivo è come impazzito. Tutti i canoni di semplicità seguiti (…) vengono come spezzati: a inaugurare uno stile rotto, obliquo, asimmetrico, con movimenti barocchi di macchina. Questo per sottolineare la “confusione” che Cristo crea nella città, nei supremi giorni della sua predicazione pubblica. Ora sono le “masse”, con la loro confusione, le loro caotiche aspirazioni che lo ascoltano. Non è più un semplice purissimo dialogo tra persone» (cfr. A Molteni, Quando la trasparente attualità di un messaggio diventa stupefacente, in http://www.pasolini.net/cinema_vangelo_sceneggiatura01.htm).
Riguardo agli attori protagonisti: Giovanni Columbu sceglie di radicare quei fatti nella sua Sardegna, usando volti e voci locali: c’è anche lo scrittore Gavino Ledda in una piccola parte nel Sinedrio (cfr. P.Mereghetti, Gesù in Sardegna, in Il Corriere della Sera, 29 Novembre 2013). In particolare «la stessa decisione di inserire nel cast i pazienti del Centro di salute mentale di Cagliari è scelta, forse l’unica scelta, che possa rendere poeticamente lo “scandalo” e la “stoltezza” della croce di cui parla Paolo nella Prima lettera ai Corinzi» (cfr. R.Bianchet, cit.). Come ha confessato lo stesso regista nuorese: «Per la parte di Gesù, inizialmente, avevo scelto un giovane pastore barbaricino che mi aveva colpito per l’aspetto fiero e melanconico e, per quanto lontano dall’iconografia corrente, richiamava l’immagine del Cristo forte e mite. Ma dopo i primi giorni di ripresa mi ero accorto che un altro interprete, quello di Giuda, scelto per la forte intensità, catalizzava l’attenzione. Allora ho messo l’attore che interpretava Giuda al posto di quello che interpretava Cristo. E per contrappunto, nella parte di Giuda ho messo un giovane dall’aspetto dolce e fragile. Una figura che richiama l’eroe che si sacrifica con infamia descritto nelle Finzioni di Borges, che a me è sempre piaciuta molto e che trova una sua conferma anche nei frammenti di quel nuovo vangelo detto “di Giuda” rinvenuto recentemente. Così l’architettura del film ha trovato un equilibrio; il nuovo Cristo era davvero colonna centrale e, inaspettatamente, richiamava un passo della profezia di Isaia, contenuta nel Vecchio Testamento» (cfr. D.Zonta, Adesso l’uomo dei dolori parla in sardo – Intervista al regista, in Avvenire, 1° Marzo 2013). Invece altri interpreti sono stati reperiti «dal mondo dei paesi della Sardegna interna, in particolare di Ovodda e Oliena, e sono pastori o allevatori, gente che vive molto in campagna» (cfr. D.Zonta, Adesso, cit.). Pasolini, invece, ha focalizzato le sue inquadrature sugli sguardi di uomini, donne e bambini come sorta di “ritratti di realtà”; egli, peraltro, ha fatto ricorso ad attori amici-intellettuali (es. Natalia Ginzburg), parenti (es. la madre Susanna nella parte di Maria anziana), oltre a persone fino ad allora sconosciute (es. il Cristo è interpretato da Enrique Irazoqui, spagnolo allora giovane studente, doppiato in italiano da Enrico Maria Salerno).
Circa il linguaggio ed il suono: Il poeta ha lasciato una traccia indelebile nella storia del cinema anche per la trama musicale del suo film, attraverso la scelta di tracce e melodie classiche (es. Bach). Ma prima di tutto «il Vangelo di Pasolini aveva al suo centro la parola, mentre in Su Re la parola è marginale ed è affidata, tra l’altro, alla lingua sarda, antica e “dura” come quella della Bibbia. Come fosse un canto sacro, il posto della parola è preso dai silenzi rotti dal vento, dal suono degli zoccoli degli asini, dal pianto, dai lamenti e dai sospiri. Suoni della natura e dell’anima che riecheggiano nella straordinaria location del film » (cfr. D.Zonta, Columbu, cit.; S.Naitza, cit.) «L’aspetto materico e ruvidamente concreto, quasi espressionista della messa in scena – spiega ancora il regista – è dovuto al fatto che a differenza de Il Vangelo secondo Matteo di Pasolini, centrato sulla parola, Su Re punta ai silenzi e ai rumori, a quel mistero ancora più vasto che rimanda al non detto. Non è facile riportare le sintetiche parole del Vangelo nel vissuto, nel reale, senza rischiare la teatralità e le frasi ripetute sono una sorta di eco di quelle parole nell’animo umano» (cfr. A.De Luca, cit.). In tale quadro scompare «il kerygma, l’annuncio del Cristo, del salvatore, e con esso scompare ogni senso del soprannaturale, scompare la parola, i dialoghi sono scarni, e comunque non pesano nell’economia del film. Il Gesù di Su Re, che ha rinunciato al logos e dunque alla propria natura divina, sembra così modellato sulla figura del “servo sofferente” di Isaia, con la sua “faccia dura come pietra” (Is 50,7), con la sua bruttezza (“non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi”, Is 53,2b), e rappresentato secondo i canoni di una iconografia fiamminga in un paesaggio povero. Un film che non racconta e non spiega, ma si affida alla profondità delle emozioni» (cfr. R.Bianchet, cit.).
Gianni Cilloco