Sabato 24 gennaio 2015, alle ore 21, nelle sale del Circolo Culturale Sardo Su Nuraghe di Biella, Battista Saiu e Agostina Becchia presenteranno “Il pane del Sabato”, azimo e lievitato. Radici giudaiche in Piemonte e in Sardegna.
In Sardegna, “venerdì” si dice “chenapura”, ossia, “cena senza lieviti”, con esplicito rimando al Seder, il sabato che precede la Pasqua ebraica, ricordo del pane mangiato dal popolo di Javè durante la fuga dall’Egitto. Durante la Quaresima e fino a Pasqua, nell’Isola vengono preparate “trizzas, funes” e “pipias/puppias” che, nella forma, rimandano alla challah, il pane del Sabato.
In Piemonte, con nomi diversi a seconda delle località – canestrelli, a Biella e nel Canavese; massot o nasirot, a Vercelli – si producono pani azimi, sottili ostie ottenute con lastre incandescenti, ancora ritualmente distribuite in contesti sacri paraliturgici o, più prosaicamente rielaborate e messe in vendita da panifici e pasticcerie; nelle versioni commerciali vengono colorate, edulcorate, aromatizzate e accoppiate con al centro creme, marmellate o l’esotico cioccolato, come nel caso biellese.
A Su Nuraghe di Biella sarà possibile vedere e degustare la challah, il pane del Sabato, proveniente dall’antico panificio Urbani, attivo nel ghetto ebraico di Roma e i canestrelli biellesi, cotti su antiche piastre, ottenuti da ricetta tradizionale della Valle dell’Elvo. In mostra, pinze per canestrelli provenienti da collezioni private e messe a disposizione dalla “Casa Museo” di Rosazza.
Simmaco Cabiddu
Cari amici
sono orgoglioso che la vostra Sezione tenga altissima la considerazione per gli Ebrei nel mondo, in Italia, in Sardegna. Ma vorrei fare una precisazione sui pani ebraici della Sardegna, specie in relazione a Su Pane Pùrile. Buona lettura. Salvatore Dedola, linguista
PANE PÙRILE. È il pane ‘azzimo’. La sfoglia compatta ed asciutta, dal diametro di 27 cm, fotografata in Pani 156, è presentata come «pane azzimo, realizzato in quantità ridotte quando mancava il tempo per attendere la lievitazione per una normale panificazione». Angius lo cita espressamente come prodotto della Gallura (Gabriella Pinna PPSMO), ma in realtà era un fenomeno che riguardava parecchie famiglie sarde e specialmente molti pastori transumanti, i quali si portavano appresso della farina al fine di confezionare celermente nell’ovile di fortuna, di quando in quando o durante la visita di ospiti, una piadina calda e soffice, utile a rompere la monotona dieta della fresa (vedi).
Tutto ciò, ovviamente, è un procedimento eccezionale, e non pretende essere un modo “ebraico” o “arabo” di confezionare il pane, poiché in Sardegna non è mai avvenuto che il pane fosse confezionato frettolosamente, alla maniera dei popoli eternamente migranti, al modo in cui ancora oggi è prodotta, dopo millenni, la pitta beduina. È vero invece che su pane pùrile è una speciale produzione degli Ebrei, non solo degli Ebrei in generale, ma specificamente degli Ebrei che si sono insediati in Sardegna in quattro ondate (la prima ondata, assieme a quella fenicia, ebbe inizio attorno al 950 a.e.v., ai tempi del Re Salomone; la seconda nell’anno 19 dell’Era Volgare).
Per capire il significato profondo di su pane pùrile, qui in Sardegna, dobbiamo parlare del significato di kenábura, cenábura, cenàbara, che significa ‘venerdì’. La Sardegna è l’unica regione romanza dove il ‘venerdì’ ha il nome kenábura, in sardo antico kenápura.
M.L. Wagner (La lingua sarda p. 72, traduz. di Paulis, Ilisso, 1997) nel tentativo di fornire l’etimologia, imbocca la via greco-latina, e ricorda che già sant’Agostino afferma la presenza della locuzione cena pura nella Bibbia precedente la Vulgata (una locuzione sparita poi, stranamente, proprio dalla Vulgata).
Wagner non spiega perchè la locuzione che afferma essere latina fosse già presente nella Bibbia (ebraica o greca?) prima ancora che il testo fosse tradotto in latino (e già questo è un errore metodologico, una insanabile contraddizione); egli dice soltanto – senza dimostrarlo – che cena pura corrispondeva al greco δεῖπνον καθαρόν ‘cena pura’ (ma chiedo: corrispondeva nella Bibbia o nel lessico?). «Cena pura era un termine del rituale pagano, come ci è attestato da Festo, ed è probabile che designasse un pranzo in cui i partecipanti dovessero astenersi da certi cibi; gli Ebrei lo adottarono per designare la vigilia di Pasqua, durante la quale ogni traccia di lievito doveva essere rimossa dalle case». La denominazione cena pura indicava, insomma, per Wagner, la vigilia della Pasqua ebraica (Pesaḥ), ed egli, oltre a ritenerla una locuzione del rituale pagano (sic!), sostiene che sia stata usata dagli Ebrei nord-africani.
Egli procede sempre più confusamente, affermando che παρασκευή (parascève) corrisponde a cena pura (sic!), ed è un termine usato in neo-greco per indicare il ‘venerdì’ [ma noi sappiamo per certo che in origine παρασκευή significava semplicemente ‘preparazione’, esattamente ‘preparazione (al sabato, Shabbat)’; e solo in seguito, grazie al poderoso influsso della cultura ebraica nell’Impero d’Oriente, giunse a significare tout court ‘venerdì’, che era il giorno di preparazione al Shabbat, al ‘sabato’].
Tanto per tornare in Sardegna, Wagner non s’accorse neppure che la denominazione sarda del ‘pane azzimo’, chiamato pùrile, non deriva, com’egli crede, dal lat. pūrus ‘puro’, quindi non ha nulla a che vedere con cena pura, tantomeno con kenàbura. A Wagner sfugge, insomma, che il sardo kenábura, kenápura non deriva dal latino cena pura ma da un composto sardo-ebraico, kena-pura, classico stato costrutto di forma cananea indicante la ‘cena di Purim’.
La Cena di Purim è celebrata dal popolo ebraico il 14 ed il 15 del mese di Adar: giorni di gioia per il fallito sterminio ordito dal perfido ministro susiano Amàn. La festa è preceduta da un giorno di digiuno pubblico (Ta’anith Esther), fatto il 13 di Adar in ricordo dell’eccidio operato dagli Ebrei sui 75.000 cittadini dell’Impero persiano (loro nemici dichiarati) da loro messo in atto su licenza del re Assuero. In pratica questi morti ammazzati costituivano il partito anti-ebraico, governato dal ministro Amàn in barba alla buona fede del re Assuero, il quale s’accorse all’ultimo istante della trama che tendeva a detronizzarlo, grazie all’allarme dato da due ebrei, sua moglie Esther aiutata dallo zio Mardochéo.
Pur in ebraico indica la ‘sorte’, il getto della ‘sorte’, che fu fatto da Amàn per decidere la data esatta dello sterminio del popolo ebraico in Persia e Mesopotamia (dove questo Popolo scontava l’esilio imposto da Nabuccodonosor); la data cadde appunto al 13 dell’ultimo mese dell’anno, Adar.
La ricorrenza annuale di Purim cade per caso alla vigila della Pesaḥ (Pasqua), la quale sta all’inizio del primo mese dell’anno nuovo (l’anno ebraico comincia in Primavera); in tal guisa si è confusa Purim con la purificazione dai lieviti attuata prima della Pasqua. Il fatto di celebrare il Pur (plur. Purim) già purificati dal digiuno del 13 di Adar (e principalmente purificati idealmente dal digiuno di tre giorni fatto da Esther prima di recarsi da Assuero per sventare la trama di Amàn) ha fatto ritenere ai latinisti che cena pura fosse la semplice traduzione dal greco δεῖπνον καθαρόν.
La confusione, anzi la vera e propria paretimologia, avvenne già coi primi traduttori del Libro di Esther, poichè già i Settanta al Libro di Esther (10, 31) posero un’appendice che rende noto in maniera imperitura che la comunità ebraica d’Egitto aveva ricevuto il Libro di Esther dalla Comunità di Palestina. Nell’appendice è scritto che nell’anno quarto di Tolomeo e Cleopatra il sacerdote e levita Dositeo portò in Egitto la lettera di Mardocheo (zio di Esther) che indiceva i Purim per i tempi a venire, affermando che si trattava della lettera autentica tradotta da Lisimaco, figlio di Tolomeo, uno dei residenti in Gerusalemme. La celebre lettera di Mardocheo fu diffusa in Egitto nel periodo in cui era già cominciata la supervisione romana sul Mare Nostrum (siamo al 114 a.e.v.), e la lingua latina, che oramai entrava in concorrenza col greco e con l’aramaico, può aver favorito la paretimologia dall’ebr. pur al latino pūr-us.
È nell’Alto medioevo che il sardo Kena de Purim ‘cena di Purim’ – anzi Kenà-pura, classico stato-costrutto aramaico indicante la ‘cena di Purim’ – si è commisto col lat. cena pura che cominciava ad indicare per antonomasia il ‘venerdì’ (per il quale la Chiesa cristiana aveva ordinato un ferreo digiuno in memoria del giorno in cui Cristo fu crocifisso).
La commistione non avvenne per iniziativa del popolo analfabeta. Fu certamente ordita e gradatamente imposta dal clero bizantino, impegnato a scalzare ed eliminare in modo surrettizio gli antichi culti e principalmente i culti degli Ebrei che abitavano in Sardegna.
Il vocabolo “Kenapura /Kenabura” deriva dal lat “chena pura o anche coena pura” originariamente termine del rituale pagano, adottato dagli Ebrei per designare la vigilia della Pasqua e introdotto in Sardegna dagli Ebrei arrivati dall’Africa.
Nella mia tesi di Laurea” Il lessico del dialetto di Osilo” indico il significato del vocabolo come “pasto senza alcun tipo di additivo o aggiunta, ossia pasto purificato e purificante”
Il tipo di cena indicato avveniva con ” pane pùrile” ossia pane azzimo.
Sempre ricordando che in quel giorno gli Ebrei rimuovevano ogni traccia di azzimo dalla proprie case.
Un po’ per disattendere le consegne del Vs messaggio, che è puramente storico potrei aggiungere che gli Elies, ossia la mia famiglia, ha origini ebraiche ma si tratta di ebrei spagnoli, ossia arrivati in Sardegna dalla Spagna.
La generazione è stata di religione ebraica forse sino ai miei bisnonni dopo di che, senza alcuna sorta di battesimo o apostasia, sono diventati naturalmente cristiani.
Anche se quando l’ho scoperto stava per venirmi un accidente.
Ora convivo tranquillamente con la situazione e anzi ne sono orgogliosa pur continuando ad essere cattolica apostolica romana.
Ovviamente, questa mia non vuole essere in alcun modo una sorta di integrazione a ciò che verrà detto nel convegno.
Prendete il tutto come se fosse un ” pour parler”
Adiosu
Giovanna Elies
Saludu… a propositu de “pane azimo”, bos potto narrere sa “mia”. Eo so de Luras ( enclave logudorese del centro gallura). Cando su pane si faghiada in domo s’impastaiada su chenabura a sera pro lu suighere e l’abessiare in panes ( pane a melas ), cotzulas ( focacce sa primmas chi si mandigaiana) su sappadu e l’infurrare. Su pane si faghiada pro una chida ma a boltas cumbinaiada chi ghjà dae su ghjoia fit cumpridu. Imbarende sa cotta noa, mandigaimus sa cotzula purile (pane azimo)cotta in sa “tzidda” o in su “fundeddu”. Su fundeddu fidi un’ispessia de pignatta rustiga de terra alghidda chi si poniat a fogu in sa giminea supra sa tribida. Cando fit bene calda, si poniat sa cotzula (cun farina impastada chenza madria ). Cando fit coghende, pro no s’imbuffare, si punghiada in divessos logos cun sa fulchetta. Penso chi: siet su modu ‘e faghere custu pane e su ‘e lu coghere, s’assimitze’ meda a sos modos mediorientales e de s’Africa settentrionale.
A metzus nos intendere ( bidu chi non nos podimus biere !?! )