Ottobre, una parola sarda al mese: “L come LAUNEḐḐAS”

Radici e semantica delle parole sarde, rivisitate mediante i dizionari delle lingue mediterranee (lingue semitiche, lingue classiche). Laboratorio linguistico, di storia e di cultura sarda a Biella

incipit L, in Giampaolo Mele, Die ac NocteLAUNEḌḌAS. Questo strumento musicale della preistoria sarda, unico del suo genere nella tipologia universale degli strumenti arundìnei (assieme a quelli scozzesi e britannici scolpiti nelle pareti di qualche chiesa celtica, o nell’abbazia di Westminster, o dipinti in rari manoscritti medievali), viene ancora usato in Sardegna, anzi sta conoscendo un momento di grande fortuna. È fatto di canna, composto da tre corpi chiamati mancosa, mancoseḍḍa, tumbu o bàsciu. La canna più lunga e più grossa, su tumbu, funge da bordone e fornisce un’unica nota continua. Il tubo di media grandezza è la canna melodica, fissata a su tumbu e suonata con la mano sinistra (le due canne unite si chiamano croba). La seconda canna melodica (mancosèḍḍa o destrìna) è tenuta libera e suonata con la destra. Qualche raro auleta gestisce la destrìna con la mano sinistra, scambiando in tal modo la posizione delle canne melodiche. Entro le tre canne affiancate la bocca soffia l’aria con un sistema di “respirazione circolare”, che non s’interrompe grazie all’intervento sapiente della glottide e della lingua. Il circuito costante dell’aria è noto anche agli aborigeni australiani e ad altri popoli “primitivi”.
Linguisti ed etnomusicologi si sono cimentati nella ricerca etimologica del termine launeḍḍas, tra i primi Matteo Madau (1723-1800) e Giovanni Spano (1803-1878), che lo credettero diminutivo di leone, per cui osarono pensare che le delicatissime e leggerissime canne un tempo fossero confezionate con le pesantissime e robustissime tibie del leone (ovviamente importate in enormi quantità dal centro-Africa!…). Preda di una equazione fonica (leone-laune…), i due studiosi non tennero nemmeno conto di un aspetto ineludibile, che cotali triple-tibie avrebbero richiesto un soffio orale potentissimo, insostenibile da chi lo emette con la modestissima pressione delle gote.
Il linguista Tito Zanardelli propose l’origine del nome dal lat. calamus ‘canna’, ‘flauto pastorale’, da cui provenz. caramel, sp. caramillo, it. ciaramella, parole che in Sardegna s’avviarono ad evolversi in calumella > claumella > galumella > glaumella > laumella > launella > launeddas (faticosissima e artificiosa ricostruzione di mutazioni sequenziali, che soddisfece soltanto il proponente, il quale lasciò senza risposta i quesiti scaturenti da ben sette variazioni fonetiche).
Nel 1909 l’etnomusicologo Giulio Fara ipotizzò che il nome derivasse da lionaxi ‘oleandro’ o, meglio, che fosse diminutivo di láu ‘alloro’ (ciò per l’ipotesi, irricevibile, che i rami delle due piante – specie dell’ultima – possano essere svuotati da un inesistente “midollo”).
Il linguista Pier Enea Guarnerio nel 1918 tornò a credere all’equazione lionaxi-launeddas (dimostrando quanto sia mostruoso e fuorviante il “canto di sirena” che induce a credere ad equivalenze meramente fonetiche).
Nel 1963 Francesco Alziator, studioso di tradizioni popolari, pensò all’equazione lácuna-launeddas, ricordando che a Solarussa sa lácuna indica il ‘corso d’acqua’; una fantasia, la sua, vagamente… fangosa, degna di miglior causa, anche perché sa lácuna o lacuìna è nient’altro che una cioffa, un fosso fangoso, una pozzanghera stradale dopo la pioggia, il cui concetto (tranne la labilissima contiguità fonetica) è antipodico a quello delle launeddas.
Il linguista M.L. Wagner, concorrente dell’Alziator, ipotizzò l’origine dal gr. monaúlos ‘flauto dritto a becco o ancia’, da cui i passaggi monauledda > molaunedda > launedda (prodigioso esito d’una miope fantasia, che non dà conto della perdita dell’iniziale mon-).
Manco a dirlo, tutte queste (e altrettante, impresentabili) elucubrazioni sono azzardi disperati, privi di logica e di rigore scientifico. L’ultimo recente azzardo è del linguista Giulio Paulis, il quale propone l’origine del termine launeḍḍas dal lat. ligula o lingula ‘linguetta’ (ch’era l’ancia vibrante delle tibiae): onde ligula > ligulella > liulella > liunella > liunedda > launeddas. «Poiché la variante launeddas, oggi prevalente, è più recente del tipo liuneddas e simili, dominante nel Settecento e nell’Ottocento, e a tutt’oggi presente in aree conservative dello spazio linguistico meridionale, s’impone la conclusione che l’etimo della nostra parola è il diminutivo latino ligulella, propriamente ‘linguetta’, con la dissimilazione di ligulella = liulella in liunella (donde liuneddas e simili)».
Invito ad apprezzare la magia operata dal Paulis con la parola dissimilazione, gettata con nonchalance da buon prestigiatore, per la quale non viene proposta alcuna ragione; tantomeno viene spiegato perché alla linguetta (all’ancia) sia stata riservata quella sconfinata devozione, tale da farci vedere in essa l’archetipo degli strumenti a fiato, l’idea sacra tramandata fulgidamente sino a noi per meglio venerare la santità del calamo a soffio più affascinante del Mediterraneo. La linguetta sarebbe una sorta di Uovo Cosmico da cui prese avvio ogni strumento a fiato: dall’ancia al nome dello strumento, quindi, e non viceversa, come logica vorrebbe; come dire: è l’unghia a generare l’uomo, il ruggito a generare il leone, lo starnuto a generare l’influenza, l’escremento il cibo, l’ubriaco il vino. E come la mettiamo con le altre decine di strumenti ad ancia inventati in Sardegna e nel Mediterraneo, tuttora orfani di un nome tanto “generativo” come la linguetta?
Non si riuscirà mai a rendere giustizia a questo straordinario strumento se non abbandoniamo l’asfittica aiuola linguistica del cosiddetto indoeuropeo per indagare tra le lingue semitiche. Prima ancora, siamo obbligati ad abbandonare uno stereotipo ancora più nefasto, quello che obbliga a vedere Roma come “madre e fomentatrice” delle lingue neolatine, la conditio-sine-qua-non della nascita delle lingue medievali e moderne nel Mediterraneo. E dire che già Dante Alighieri nel De Vulgari Eloquentia ricordava che il latino è una lingua artificiale, imposta nelle curie ma non carnale al volgo, mentre soltanto il Volgare è la lingua ereditata dalle genti fin dal primo balbettio dell’Umanità (infatti Dante creò in volgare la sua opera immortale). Un altro stereotipo induce a rifiutare le lingue semitiche «per l’impossibilità o l’estrema difficoltà di dimostrare contatti prolungati che abbiano portato a significative e durature influenze culturali tra i sardi e le popolazioni» semitiche (Marco Lutzu); e non si tiene conto di una verità rivoluzionaria, che le lingue del Mediterraneo esistono prima del latino e non sono mai morte, e sono il risultato evolutivo da una sola Lingua Madre (Ursprache), ossia la Lingua Mediterranea, che aveva le identiche basi che noi oggi riscontriamo nelle lingue sumero-semitiche. Quando la Sardegna, in epoca nuragica, utilizzava il proprio ricchissimo vocabolario, Roma era in mente Dei e dovette aspettare altri 1000 anni per manifestarsi sul Palatino con un patetico villaggio di frasche. Tutte le parole da noi oggi chiamate “latine” sono parole del vocabolario sardo di 5000 anni fa, che poi furono assimilate anche dai Romani (non viceversa).
Anche i Babilonesi, ovviamente, parlavano l’Ursprache sardo-mediterranea. Infatti è dall’archivio babilonese (un’arcaica lingua sepolta ed oggi riesumata) che abbiamo conferma dell’antichissimo termine sardo-mediterraneo, composto da laḫu ‘mascella, bocca, ganascia’ + nīlu ‘ingolfamento, riempimento, allagamento’ = ‘allagamento delle guance’. Se invece assumiamo come originario il termine liuneddas (usato nel ‘700-‘800), allora la base etimologica è l’antico accadico le’um ‘competenza nel fare, padronanza di un’arte’ + nīlu ‘ingolfamento, riempimento, allagamento’: in composto genitivo le’um-nīlu ‘padronanza, arte di ingolfare, riempire, allagare’ (le gote).
Quindi launeḍḍas è un composto copulativo indicante le due sequenze, le modalità con le quali è suonato lo strumento, cioè gonfiando le gote ininterrottamente e spingendo l’aria attraverso le labbra (prendendo il respiro dal naso). Oppure è un composto genitivo dov’è indicata la maestria nel gonfiare le guance. L’uno e l’altro composto sono una sineddoche, ch’estende al nome dello strumento il nome della tecnica per sonarlo.
In Gallura e in Logudoro ancora per tutto l’Ottocento (ed ancora oggi) le launeḍḍas sono chiamate truveḍḍi, trueḍḍi, la cui base etimologica è il sum. dur ‘crepa, fenditura’ + ellum ‘song’; il composto dur-ellum significò in origine ‘(canna) che canta dalle fenditure (dai fori prodotti)’: parola veramente arcaica.
In altre contrade sarde le launeḍḍas sono ancora dette bídulas, la cui base etimologica è l’akk. itû ‘vicino, contiguo’ (tutto un programma), di cui bìdulas risulta essere un aggettivale in -la.
Launeḍḍas, trueḍḍi, bìdulas sono parole arcaiche, nate migliaia d’anni prima della lingua latina; la loro etimologia sconfigge gli ascari “derivazionisti” che ne pretendono l’origine dall’italiano leone (Madau, Spano), dal latino calamus o ligula (Zanardelli, Paulis), dal greco monaúlos (Wagner), e sconfigge la gente ignorante e miope che ne vede l’origine dal sardo lionaxi o lacuna (Fara, Guarnerio, Alziator).

Salvatore Dedola,
glottologo

Nell’immagine: l’incipit “L”, in Giampaolo Mele (a cura di), Die ac Nocte. I Codici Liturgici di Oristano dal Giudicato di Arborea all’età spagnola (secoli XI-XVII), Cagliari: AMD Edizioni, 2009.

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