Radici e semantica delle parole sarde, rivisitate mediante i dizionari delle lingue mediterranee (lingue semitiche, lingue classiche). Laboratorio linguistico di storia e di cultura sarda a Biella
Il mio proposito, come cittadino e come persona di relazione, è di evitare la volgarità sempre e dovunque. Ma quando questa esigenza collide e fa a pugni col bisogno di mostrare la purezza delle antiche verità, allora scatta la denuncia mirata a strappare la tela della mistificazione. Diceva Cicerone: Quod turpe est, id, quamvis occultetur, tamen honestum fieri nullo modo potest ‘Il fatto turpe, per quanto tu lo voglia dissimulare, non potrà mai acquisire valore di onestà’. Ma, mi chiedo, quale turpitudine: quella di una parola in sé o quella che è stata infangata da gente losca?
UḌḌA camp., buḍḍa log. ‘intestino retto’, anche ‘vagina’, ‘ventre’. Wagner (DES,I,236) lo fa derivare dal lat. bulla ‘bolla’. Ma non si capisce la relazione tra le due cose. Nell’esame etimologico di questo nome occorre prudenza, in quanto esso appare compromesso da un secolare uso distorto. Lo si capisce perché è stranamente generico e indistinto nell’indicare le parti intime, estendendo pari semantica sia all’intestino retto sia alla vagina. Queste due parti in sardo hanno già altra definizione che le distingue. Vien da pensare che la confusione abbia molto a che fare con una procedura socio-culturale liquidatoria, infamante.
Per trovare l’etimo dobbiamo quindi destrutturare la semantica attuale nel tentativo di ricondurla a quella originaria. Il significato attuale di buḍḍa ‘figa, vulva, pancia, deretano, intestino retto’ (quale complesso della femminilità) va interpretato come destrutturazione e immiserimento di un epiteto sacro degli Šardana operato dai preti bizantini durante i “secoli bui” del nostro Medioevo. Il bandolo della matassa sta nel sumerico ud ‘Sole’, ‘Dio Sole’ + -a caso nominale locativo (non-direzionale: indica infatti l’arresto in un luogo). Abbiamo pertanto ud-da (questa è l’esatta pronuncia sumerica) indicante la sosta finale, il riposo finale “entro il Sole”.
Attenendoci a questa base etimologica, possiamo gettare un fascio di luce sulla stranissima locuzione camp. intraìcci in sa uḍḍa, imprecazione ottativa, desiderativa, rivolta con malanimo a uno che vogliamo mandare “al diavolo”. Nonostante la connotazione negativa che si dà al sintagma, presa per sé l’imprecazione non sarebbe affatto negativa (quanti uomini non sognano di “penetrare nella vagina”?). Diverso sarebbe che si auspichi di “entrare nel retto”.
Considerata la secolare distorsione semantica, pare chiaro che i preti bizantini abbiano avuto il triplo fine di confondere le idee, trivializzarle, e far dimenticare che intrái in sa uḍḍa era originariamente un sintagma sacrale, un augurio altamente positivo enunciato nell’ambito di credenze profondamente spirituali. Il sintagma Intrái in sa uḍḍa è una rara sopravvivenza che illustra la credenza dei Sardi pre-cristiani nella metempsicosi, nel ritorno all’Uno, al Dio Unico, allo Spirito Onnipotente, da cui poi sarebbero rinati. Non possiamo dimenticare, infatti, che il concetto di Dio in quanto Essenza Unitaria dell’Universo, a quei tempi aveva la sua epifania proprio nel Sole, la Pura Luce, il Puro Spirito che generava il Mondo e l’Umanità e poi lo ricomponeva in Sé al momento della morte degli individui.
Salvatore Dedola,
glottologo-semitista
Nell’immagine: l’incipit “U”, in Giampaolo Mele (a cura di), Die ac Nocte. I Codici Liturgici di Oristano dal Giudicato di Arborea all’età spagnola (secoli XI-XVII), Cagliari: AMD Edizioni, 2009