Radici e semantica delle parole sarde, rivisitate mediante i dizionari delle lingue mediterranee (lingue semitiche, lingue classiche). Laboratorio linguistico, di storia e di cultura sarda a Biella
Tanto famosa quanto seviziata, questa parola sarda attende ancora d’essere ripulita da un secolo di ribalderie, dove miriadi di “intenditori”, dimessa la dignità del giudizio, han preferito assidersi tra le alticce panche dell’oste, intonando sconce litanie, “tirando al bersaglio”, mirando alla cieca, insozzando il calice dell’epistemologia, dislocandosi agli antipodi della prassi scientifica, sbeffeggiando ogni vincolo metodologico, rinunciando allo spirito critico che impegna alla responsabilità delle proprie esternazioni.
È opportuno trovare altro mestiere a questi cacciatori di farfalle.
La scienza, quand’è vera, richiede l’esposizione rigorosa dei risultati, poiché il lettore ha diritto di attingere allo scibile mediante una narrazione priva di voli pindarici, senza fantasie, scevra di verbosità ingannevoli.
Da oltre vent’anni richiamo a questi obblighi morali e scientifici, e spesso sto a rintuzzare le carenze metodologiche che nel campo delle etimologie azzardano le ipotesi più indegne. Sono intervenuto a correggere miriadi di etimologie sarde, italiane, latine, greche, germaniche, celtiche, semitiche, esposte da edonisti vinolenti resi intangibili dall’impunità procacciata nelle accademie.
Questa pratica non ha lasciato nulla d’intatto specialmente nella cultura sarda, ed è penoso star sempre a ramazzare i frammenti dei danni da troppe narrazioni vie più licenziose. La cultura sarda è ridotta a pantano, ed è soltanto col fango che molti studiosi hanno impastato il significato di nuraghe. Ebbri di follia, vanno persino a lambiccare su come debba pronunciarsi nuraghe in italiano, al singolare e al plurale, dimenticando le più elementari regole che pluralizzano in –i ogni parola italiana terminante in –e (costume/i, agente/i, potente/i, plebe/i); e, per il singolare, trascurando che il monumento nuragico nell’Isola ha tre esiti fonici secondo le zone (nuraghe/nurake/nuraxi), i quali in italiano pretendono comunque il plurale –i.
Questi signori attribuiscono al nuraghe funzioni marziali, senza spiegare perché i Sardi ebbero bisogno di 10.000 o 20.000 torri da combattimento. Con l’intento di muover guerra? Oppure difendersi? Ma da chi? Forse dai dieci pastori stanziati nel vicino nuraghe a 500 metri?
Un libro di pochi anni fa, intitolato “La Stele di Nora”, a pag. 275 comincia la narrazione identificando «senza preconcetti» un non chiarito Nogar che dette nome al nuraghe. Poi fa la lunga sequenza delle altre etimologie, partendo dal Madao (1792: nuraghe = Norace); passa ad Arri (1834: nur hag ‘fuoco fervente’); registra l’identica posizione di Alberto Della Marmora e di Antonio Bresciani (1850); passa a Giovanni Spano (1862: nuraghe come “fuoco grande” nel senso di “casa grande”). Stesso pensiero ha il Maltzan (1869). Il glottologo torinese Giovanni Flechia (1872) dichiara che nuraghe è semplice appellativo di it. muro, muraglia, muraccia, appositamente sardizzati (poiché nemmeno muro è parola sarda). Ettore Pais (1910) accetta questa abominevole versione, ed al contempo si rinchiude nell’autoreferenza della lingua sarda, identificando i nuraghes con le nurras, ossia con le ‘caverne calcaree’ (osservate la vistosissima contraddizione fono-semantica tra muro e nurra!). L’autorità del Pais, pilotata dal Flechia, abbacinò i posteri, che furono messi in riga ed accettarono questa visione allucinante.
Raffaele Petazzoni (1912), segnalato come esperto di religioni (?), dichiarò scaduto il tempo di chi s’ostinava a credere all’identità nuraghe = nur ‘fuoco’ e identificò Norax con nuraghe (intuizione rispolverata dal Madao). Lo stesso fa Bacchisio Raimondo Motzo (1926); mentre l’archeologo Antonio Taramelli (1934) retrocede a quel rapporto nuraghes–nurras che aveva abbacinato Pais.
Nel 1944 il Metz associa nuraghe a Nora. Vittorio Bertoldi (1947) opta per la più complessa associazione Nora-Iberia-Norax-nuraghe, e sentenzia che i coloni punici si stanziarono nel centro di Nora già abitato da indigeni, rispettandone il nome. Nel 1962 Giovanni Lilliu ribadì la flechiana “intuizione” del Pais. Subito dopo il Delcor associò nuraghe all’antroponimo Nogar. Nel 1974 Dupont-Sommer gli preferisce la tripla identità Nogar-Nora-nuraghe, individuando in Nogar, non un antroponimo ma l’antico nome di Nora. Massimo Pittau nel 1977 rinculò sul Flechia-Pais-Lilliu attribuendo al nuraghe il significato di ‘edificio murario’.
Giovanni Chiera nel 1978 riconduce infine il nuraghe al “preindoeuropeo” (un concetto misterico che abbacina i cercatori di farfalle), inventandosi la parola *nor quale ‘rialzo, cavità circolare, mucchio’. Non c’è limite alla protervia di chi confida di vivacchiare nell’ignoranza generale e confeziona nuove parole con la polvere di stelle, confidando nell’assenza di censori.
Per ultimo è arrivato l’archeologo Giovanni Ugas (2005) il quale con procedura gazzettistica esamina a volo le precedenti ipotesi, le elenca senza proiettarle su scale di valori, facendo capire che non bisogna schierarsi. Concede soltanto che nella voce nuraki, nuraghe, il radicale è nur-, mentre –ki è il suffisso. Una precisazione talmente saggia che dispensa dal ripassare le regole grammaticali delle Elementari. Sempre con salomonica imparzialità egli informa che il radicale è mediterraneo-preindoeuropeo (concessione fatta al Chiera), ma «Norax, la guida degli Iberi che fonda Nora, induce a ritenere che le forme in nor– nascano da adattamenti ai timbri vocalici indoeuropei di una originaria radice mediterranea nur-, oppure che, al contrario, fu il radicale nor– (proto iberico-indoeuropeo?) a trasformarsi in nur– per adattarsi ai timbri mediterranei». Mirabile equilibrio degli opposti! Dopo questo messianico sermone Ugas incide sulla pietra la sentenza che la parola nuraghe è legata alle nurre, alle cavità. Lacrimiamo commossi al vedere Ugas schierato con la maggioranza del “Flechia-Pais-Lilliu-Pittau-pensiero”.
NURAGHE. Va da sé che, affogato dalla sapienza di questi autori, il nome del nuraghe non ha scampo. Ed è impossibile bucare il muro di gomma, impossibile sottrarre il lettore al doping, impossibile salvarlo dall’overdose di fallaci assonanze, se prima non convinciamo noi stessi che alle etimologie è consentito avvicinarsi scientificamente solo con i dizionari, sempre con i dizionari, esclusivamente con i dizionari (e con le rispettive grammatiche). Se inseguiamo la sirena delle assonanze, niente vieta di equiparare il sd. casu ‘formaggio’ all’it. caso ‘probabilità’; e persino un pannello può essere ridotto a pennello, mentre il foroprodotto da un chiodo può trasformarsi nel ‘luogo dove s’amministra la giustizia’.
E non basta rattrappirsi nel misero confronto tra parole sarde, come non basta confrontare la lingua sarda soltanto col latino (o con qualche escursione nel greco). Occorre invece apparecchiare tutti i dizionari e tutte le grammatiche affacciatisi nel Mediterraneo sin dal primo balbettio della cultura, poiché, vivaddio, un etimo è accettabile se lo si indaga con tecnica archeologica, scendendo livello dopo livello sino al primo apparire del radicale omo-fonico ed omo-semantico, il quale potrebbe dimostrarsi essere stato usato dai Nuragici almeno 800 anni prima, o dal Sapiens almeno 80.000 anni prima che sul Palatino nascessero tre capanne di paglia.
Chi immagina che nuraghe sia formazione moderna o al più medievale (da nurra), si dispensa dall’indagare le mutazioni della cultura sarda, ed invano cerca di aggrapparsi a un qualsivoglia “ipse dixit”, che però non viene in soccorso dal pensiero dei “secoli bui”, allorché i preti bizantini in Sardegna, col favore di un assordante silenzio, assunsero il compito di stravolgere l’antica cultura ed ogni parola-chiave ad essa connessa, rielaborandola, affliggendola con contrappassi e satanizzazioni, giocando ad libitum proprio con le assonanze. Così avvenne per la nurra tanto vagheggiata da Flechia-Pais-Lilliu-Pittau-Ugas.
Ovvio che la Nurra sassarese prese nome, per espansione territoriale, da Nure, Nurae, a quei tempi l’unica città esistente nel nord-ovest. E niente osta che il nome di quella città prendesse l’antonomastico nome del Dio Sole (come similmente accadde ad Aristanis/Ištaranis, la città della dea Ištar, devota alla paredra del Dio Sole). La filiazione Nurra < Nure < Nora < accadico nūru ‘luce’ sembra persino ovvia. A sua volta quel concetto semitico era una eredità delle sillabe sumeriche nu ‘creatore’ + ra‘Dio’, agglutinate (per la legge del sandhi) in nur-ra ‘Dio Creatore’, ‘Dio Iniziatore dell’Universo’. Poiché dappertutto nel Mediterraneo il Creatore fu identificato nel Sole (cfr. eg. Rā ‘Sole’, ‘Luce’, ‘Dio’), da lì nacque l’interfaccia di Sole-Luce, e quest’ultima in semitico vien ancora detta nur, da accadico nūru ‘luce’. Nulla di nuovo nel Mediterraneo, almeno da 5000 anni ad oggi.
Resta da chiarire cosa c’entri l’agglutinazione sumero-semitica significante ‘luce’ col paradosso della nurra intesa come ‘voragine, spaccatura profonda, cavità tenebrosa’. Il geniale concetto provenne ai preti bizantini dal tabernacolo del Nuraghe, dalla thólos, dalla camera sacerdotale, dal sancta sanctorum impenetrabile e buio, dalla parte vuota del nurághe contenente lo spirito di Dio.
Salvatore Dedola, glottologo-semitista
Nell’immagine: l’incipit, “N”, in Giampaolo Mele (a cura di), Die ac Nocte. I Codici Liturgici di Oristano dal Giudicato di Arborea all’età spagnola (secoli XI-XVII), Cagliari: AMD Edizioni, 2009