Radici e semantica delle parole sarde, rivisitate mediante i dizionari delle lingue mediterranee (lingue semitiche, lingue classiche). Laboratorio linguistico, di storia e di cultura sarda a Biella
VAGGIÁNU, vaggiàna in sassarese s’indica il ‘celibe’, la ‘nubile’, che in logudorese fanno bajanu, bajàna: ossu di lu vaggiánu ‘pomo d’Adamo’. Queste sono voci collegate a giàna. Però quest’ultimo è un nome strano, anzi, è uno strano appellativo. I linguisti normalmente lo fanno derivare dal latino Diana, sbagliando. Sbagliano nel nome, però, non nel mito.
Diana è un’antica divinità italica. A Roma fu la dea della luce (Diana < dies); anche Giano ( < dies) fu l’originario dio della luce. Gianorappresentava il Sole, Diana la Luna.
L’evangelizzazione cristiana si sobbarcò l’immane compito di far sparire d’amblée, come niente fosse, una tradizione millenaria che aveva religiosamente dialogato con gli spiriti degli alberi, con lo scrosciare del torrente, con l’ira delle tempeste, con la Luna. Tutti gli dei pagani fecero le spese d’una demonizzazione collettiva, e Diana amplificò in sé – per contrappasso – il mito cristiano della perversione, divenendo la guida delle streghe. Essa era pure identificata con la luna, un astro legato alla ciclicità della donna. Diananei riti precristiani amava pure la notte ed incarnava a un tempo una delle forme della triplice Ecate, la dea della magia adorata con riti misterici, atti ad eccitare l’immaginazione. Ecate, fu onorata inizialmente ad Efeso con danze di donne, ed incarnava gli spettri ed i fantasmi della terra, ma amava soprattutto apparire di notte assieme alla schiera delle sue seguaci, anime senza sepoltura o morte anzitempo, in cerca di pace.
Il culto notturno di Diana-Ecate si pose quindi in diretto contrasto con le entità benefiche della luce, della luminosità la quale magnificava la gloriosa ascesa dei Cristiani. Non rimase in piedi nessuna delle antiche divinità: tutte furono spodestate e sostituite con “santi” cristiani.
Tornando alla Sardegna, oggi ci ritroviamo is domus de janas (normalmente chiamate nel nord sas domos dessas fatas, ‘le case delle fate’). Sono tombe ipogeiche scavate nelle pareti rocciose, risalenti all’Età tardo-neolitica e del rame (2000-2200 a.e.v.). La tradizione cristiana, nemica del buio, relegò in quei buchi l’habitat del maleficio e della perversione. Ma furono proprio i pastori a calmierare le esagerazioni dei monaci, poiché l’eterno vagare tra i pascoli, mettendoli a contatto con quelle “entità notturne”, li rassicurava delle loro reali intenzioni, dalle quali non ricavavano neppure un brivido. Ed avvenne che l’antico appellativo (se mai c’è stato) di Gianas < Dianadivenne presto un tenero e divertito Bajanas ‘verginelle’, ma anche ‘sventatelle’. È Vittorio Angius a raccontarci che 200 anni fa queste ‘fate’ venivano chiamate non gianas ma propriamente bajànas, ajànas: il che riporta con assoluta certezza a un’altra etimologia, sempre latina, che ha dato origine al concetto di ‘sventatella, cazzona’. I Romani erano buongustai, lo sappiamo, e sapevano scegliere tra fava e fava. I baccelli prodotti a Băiae (presso Pozzuoli) erano i migliori d’Italia per grossezza e lunghezza. Di qui l’appellativo di faba bajana, poi soltanto di (faba) bajana, ossia ‘cazzona’, dato alle verginelle sciocche e sventate. Appellativo che nel Nord-Sardegna è rimasto sino ad oggi, trattenendo però il solo significato “cristiano” di ‘vergine, nubile’.
Salvatore Dedola, glottologo-semitista
Nell’immagine: l’incipit, “B”, in Giampaolo Mele (a cura di), Die ac Nocte. I Codici Liturgici di Oristano dal Giudicato di Arborea all’età spagnola (secoli XI-XVII), Cagliari: AMD Edizioni, 2009