Poesia del vino e vino nella poesia

Venerdì 14 novembre nella sede del Circolo Su Nuraghe alle ore 21

Vino e poesia” sarà il tema di una interessante serate che si svolgerà il prossimo venerdì 14 novembre al Circolo Su Nuraghe.
Approfondimento letterario e degustazione di vini, ascoltando alcune bellissime poesie scelte e interpretate da Biagio Picciau.
Si comincerà con “Sa Buittiglia“, di Peppino Mereu, sicuramente… adatta all’occasione. A seguire, “Atongiu” di Sergio Medde, “Antongiu” di Aldo Spiga, “Binzighedda” e “Si morzo a cucuru a su butiglione” di Remundu Piras, “Torrende a sa inza abbandonada“, “A su inu“, “No buffo pius binu“, “Binu onu“, “Finz’a feghe” e “A su ‘inu” di Antioco Casula ‘Montanaru‘, “A Bacu” di Angelinu Lande, “Sa cantina de compare meu” di Raffaele Casula, “Su imbreagu” di Vittorinu Sanna, brani da “Quartinas” di Aldo Puddu, “Custa tassa mi buffu de binu” – scena ottava de “Sa coia de Pitanu” di s’Arretori Luisu Matta.
In abbinamento, verrà proposta la degustazione di sei vini sardi, tre rossi e tre bianchi, illustrati da un appassionato di enologia.

“Donne e carbone” il tema di Su Calendariu 2004

C’era un tempo in cui il carbone era l’unico, poderoso sostentamento per il progresso. Era il tempo in cui, dopo qualche secolo impiegato a conoscere e a domare la forza delle ‘pietre nere’, l’uomo cominciò a costruire grandi macchine in grado di produrre energia. Anzi, di estrarla da quel prezioso materiale che si formò, grazie al paziente incedere dei secoli e delle stagioni, nella pancia oscura della terra. Comignoli sui tetti delle fabbriche, comignoli sulle case, comignoli sulla schiena di grandi bastimenti che solcavano i mari più agitati e profondi del pianeta, comignoli sui nasi delle locomotive, potenti mostri meccanici i cui sbuffi di vapore, miracolosamente, annullavano distanze credute eterne.
Il mondo stava cambiando. Tutto accelerava, tutto cresceva. Ma per crescere e accelerare, serviva energia.
Le caldaie avevano fame di energia.
Una fame insaziabile. Una fame che avrebbe potuto placare solo il carbone. Non bastava quello fossile.
Troppo poco. E troppo lento il miracoloso processo chimico necessario a formarlo.
Ma gli uomini che ormai conoscevano le fondamentali leggi della materia, inventarono le carbonaie. Carbone vegetale. Energia prodotta dai rami e dagli arbusti che, sapientemente accatastati, lentamente bruciavano per giorni e notti, tramutandosi in ‘cibo’ per il progresso.
Dietro alle facciate delle sfavillanti botteghe cittadine, dietro agli affollati ingressi delle fabbriche, dietro alle rotaie luccicanti delle strade ferrate, dietro alle enormi eliche delle navi, si nascondeva il lavoro di migliaia di uomini e di donne il cui imprescindibile compito era ‘fabbricare’ e trasportare il carbone.
Loro, talvolta distanti miglia e miglia da quel progresso che alimentavano con il lavoro delle braccia e delle schiene, erano il primo anello di una lunga catena, un anello senza il quale le enormi caldaie del benessere, della scienza e della modernità, si sarebbero raffreddate e spente.
Nel centro del grande Mare Nostrum, sull’Isola, vivevano molti di loro. Si alzavano all’alba e si recavano tra le colline e le montagne della Sardegna, là dove la vegetazione era tanta e la terra fertile, là dove cresceva la materia prima per ottenere energia.
Il prodotto delle grandi carbonaie di Piscina Manna e Mont’e Sali, veniva poi faticosamente trasportato sino ai moli di Cala Bernardini, nel comprensorio di Pula. Esili bilancelle a vela latina attendevano ansiose l’arrivo del carico. I marinai carlofortini che reggevano il timone delle imbarcazioni, avevano il compito di trasportare “l’energia” ai grandi vascelli che attendevano al largo. E da lì alla terra ferma, scivolando sulle agitate acque del Mediterraneo. Nel Calendariu 2004 di Su Nuraghe, ritroverete una serie di immagini che raccontano questa storia. Una storia ancora una volta condivisa con il Piemonte e il Biellese dove, a chilometri di distanza, analoghi gesti ed analoghi riti venivano compiuti nelle fredde vallate intorno a Vallemosso.
Donne e carbone. Questo il titolo.
Come recupero di una memoria che scompare e come omaggio a quelle tante, tantissime donne, che lavorarono per anni producendo carbone e trasportandolo, sulle grandi ceste tenute in equilibrio sul capo, per garantire nuova linfa a quel progresso che, in gran parte, non ebbero occasione di toccare con mano.

Edoardo Tagliani

Su Rosariu cantadu con meditazioni in Limba

Tradizionale appuntamento a Lessona il 17 ottobre 2003 nell’oratorio di Sant’Eusebio
La nobile figura di Sant’Eusebio da Cagliari, da Vescovo di Vercelli a Patrono del Piemonte

L’appuntamento più prossimo con “Su Rosariu cantadu“, che sarà guidato da don Ferdinando Gallu della parrocchia (ora rettoria) dei Santi Filippo e Giacomo di Rialmosso, frazione di Quittengo, è quello di mercoledì 17 corrente, alle ore 20.30, presso la chiesa di Sant’Eusebio di Lessona. Dovrebbe essere presente anche il vescovo, monsignor Gabriele Mana. Seguirà come d’abitudine un rinfresco con dolci dell’Isola.
L’occasione è propizia per trattare della figura del Santo sardo, popolarissimo in Piemonte, dove divenne vescovo della diocesi di Vercelli, legando il suo nome a una miriade di chiese, oratori e parrocchie.
Di nobile famiglia, Eusebio nacque a Cagliari all’inizio del III secolo d.C. e fu un pilastro della nascente cristianità e conversione delle masse cittadine e rurali del nord Italia del suo tempo.
Già alla fine del V secolo, rivolgendosi a un cristiano eretico, Vigilio, vescovo di Tapso, città sulle coste dell’Africa settentrionale, così ne scriveva: “… Non aver paura a seguire la dottrina insegnata dal grandissimo Atanasio (vescovo di Alessandria d’Egitto) in Oriente (…) e da quegli uomini santi e apostolici di lingua latina che sono Ilario, Eusebio, Ambrogio, Agostino, Girolamo“.
Ricordato accanto al gruppo dei grandi dottori e scrittori cristiani del IV e V secolo, Eusebio trova qui la sua collocazione più idonea, sebbene di lui non si conservi quasi opera alcuna, tranne la straordinaria fecondità religiosa che ancor oggi nel suo nome fiorisce un po’ dovunque nel mondo.
Lasciata su una nave, intorno al 313, la sua aspra isola appena sfiorata dal Cristianesimo, lo vediamo giovinetto raggiungere Roma insieme alla madre vedova e all’unica sorella sopravvissuta, Eusebia. Non è difficile immaginarne la scoratezza nell’abbandonare la propria terra, i propri parenti, i visi, gli odori e i sapori dell’infanzia, né ipotizzarne l’abbigliamento (una tonaca e un paio di sandali), il bagaglio al seguito (poche masserizie strette in un fagotto), i pensieri che gli frullavano per il capo: remissivo e ubbidiente, il ragazzo si chiedeva certamente a cosa andava incontro, quali genti l’avrebbero accolto, quale sarebbe stato il suo futuro.
Nella capitale dell’impero esisteva una comunità cristiana antica e fiorente, nonostante le persecuzioni l’avessero decimata, ed Eusebio desiderava farne parte con tutto il suo cuore.
Narra la “Vita antica“, la sua più antica biografia, che a Roma fu battezzato e chiamato Eusebio dall’omonimo papa regnante, sebbene la notizia sia ritenuta priva di fondamento dalla critica storica, che fa derivare invece il suo diffusissimo nome dal greco, con il significato di “pio, religioso”.
Assassinato papa Eusebio dagli imperatori Diocleziano e Massimiano e sostituito da Melchiade, nello stesso anno incominciò a regnare il grande imperatore Costantino, con cui Eusebio stette tre anni servendo Dio senza lagnanze e insegnando con competenza la Sacra Scrittura. Sotto papa Silvestro, il giovane fu invece ordinato Lettore della Chiesa romana.
Mentre egli partecipava al trionfo della Chiesa nelle basiliche romane, in Egitto si accendeva un piccolo fuoco che sarebbe divampato fin quasi a bruciare la Chiesa intera, scrive Teresio Bosco nel suo “Eusebio di Vercelli nel suo tempo pagano e cristiano” (editrice Elle Di Ci).
Dopo essere stato travolto e sballottato per il mondo dal vento infuocato dell’arianesimo, Eusebio sarà uno dei pochi vescovi che riuscirà a ricostruire la Chiesa. Eresia cristologica e trinitaria diffusasi a partire dal IV secolo per la predicazione del prete egiziano Ario, questa dottrina negava l’uguaglianza del Figlio e del Padre, e quindi la natura e gli attributi divini del Figlio. Condannata dal concilio di Nicea (antica città della Bitinia, oggi Iznik, in Turchia) nel 325, che affermò la “consustanzialità” del Figlio con il Padre, continuò comunque a diffondersi sino all’editto di Teodosio (380), che sanzionò l’ortodossia di Stato.
Intorno al 345, Eusebio fu eletto vescovo di Vercelli. In quel tempo, l’imperatore Costante si trovava a Milano, dov’era vescovo Protasio. Di ritorno da Sardica (l’attuale Sofia, capitale della Bulgaria), la delegazione colà inviata da papa Giulio nell’ennesimo tentativo di unire le chiese sconvolte dall’arianesimo si fermò a Milano per esaminare la situazione delle comunità cristiane del nord Italia.
A Milano e ad Aquileia esistevano grosse chiese attive e missionarie, impegnate a divulgare il messaggio cristiano agli altri grandi centri, mentre avevano un vescovo pure Verona e Brescia. Proprio a Milano si decise di eleggere e consacrare due nuovi vescovi a Ticinum (l’odierna Pavia) e Vercelli.
Vercelli era allora città nobilissima, molto ricca, con grandi boschi e vigne, pingue di pascoli, irrigata di acque salubri, spiega la “Vita antica”.
Posta sul fiume Sesia, si trovava alla confluenza di strade percorse da grande traffico; entrata nell’orbita di Roma forse all’inizio del 200 a. C., divenne forte e potente.
L’idea di crearvi una diocesi (circoscrizione ecclesiale) derivò dal fatto che già vi esistevano numerose e forti comunità cristiane, che un vescovo avrebbe di sicuro saputo raggruppare e guidare. Eusebio venne dunque col papa a Vercelli e vi fu acclamato vescovo dal popolo.
Poco dopo seguirà l’ordinazione regolare, con l’imposizione delle mani del vescovo ordinante (il 15 dicembre 345, a Roma, nella Basilica Lateranense), ma è singolare questo fatto dell’interferenza del popolo nella scelta della persona più adatta a governarne la Chiesa.
Nel nord Italia, in quel tempo, i cristiani erano forse il 10%: impresa dura riuscire a convertire gli altri, eppure Eusebio la spuntò suscitando l’amore di tutti i cittadini verso Dio, conoscendo i suoi fedeli, soccorrendo le vedove e gli orfani, prendendosi cura dei reietti della società, dimostrando con l’esempio e la carità ciò che altri andavano cianciando con le parole, vincendo con la dolcezza e l’umiltà le resistenze dei “cittadini” e dei contadini, soffocando con la fede nel buon Dio i rigurgiti fortissimi di paganesimo e le commistioni fra fede e pratiche magiche che per lungo tempo ancora governarono la nascente cristianità.
La sua diocesi si estendeva a tutto il Piemonte: dalla sponda occidentale del Ticino alla corona delle Alpi, di là dal Po fin verso la costa ligure.
Oltre a Vercelli, Eusebio doveva occuparsi delle genti di Novara, Ivrea, Tortona, Torino, Asti e di altri centri municipali ancora, dei borghi e dei paesi collegati amministrativamente alle città.
Lettere e viaggi furono gli strumenti che gli consentirono un primo approccio con quelle comunità, poi venne il cenobio di Vercelli, vale a dire la scuola-oratorio, il primo seminario della Chiesa occidentale per chierici e presbiteri che costituì il lievito dei futuri predicatori e missionari. Nella sua casa così trasformata, vicina alla basilica cattedrale di Santa Maria Maggiore, ospitò il clero residente in città e gli aspiranti al sacerdozio e mediante una vita di preghiera, carità e castità, con lo studio e la riflessione sulla Sacra Scrittura, preparò i suoi collaboratori al ministero. Si compì in questo modo, con i colloqui con la gente, la lettura del Vangelo seguita da un breve commento, la predicazione, la discussione, la preghiera lunga e silenziosa nella cappella, la cristianizzazione delle genti del nord.
Cosa c’è di vero nella leggenda che vuole Eusebio fondatore dei santuari mariani di Crea, nel Monferrato, e Oropa, nel Biellese, e addirittura colui che trasportò di persona le due statue lignee della Madonna nera? Poco, se non l’autenticità della sua azione missionaria, che penetrò fin nei recessi più profondi del paganesimo popolare.
Per contrastare la persecuzione popolare scatenatagli contro dagli ariani, Eusebio si era spostato da Vercelli a Creodunum (l’antico nome di Crea), un colle nel nord del Monferrato ricoperto da una selva sacra ai contadini, ai pastori e ai boscaioli del posto, che vi si radunavano per compiere i loro riti celti e liguri.
Vi rimase tre mesi, costruendovi una cappella in onore della beata madre di Dio e traducendovi i quattro Vangeli dal greco al latino, utili allo studio e alla predicazione dei suoi cenobiti.
Oggi quel luogo è divenuto il santuario di Crea, centro della devozione mariana della diocesi di Casale (Al), staccatasi da quella di Vercelli nel 1474 .
Proprio attorno a quel nucleo originale si formarono col passare del tempo fantasie e leggende, quale quella della statua di Maria santissima, che Eusebio avrebbe trovato nel suo esilio a Scitopoli (l’odierna Beisan, che ne era già l’antica denominazione, situata a oriente della pianura di Esdrelon, nella valle del Giordano) e portato a Crea personalmente, mentre altre due di uguale origine donava una a Cagliari e l’altra a Oropa, come spiega lo storico L. Maccono nel suo “Il Santuario di Nostra Signora di Crea nel Monferrato” (Casale, 1951).
Quanto a Oropa, di certo Eusebio, mentr’era vescovo a Vercelli, vi si recò per sradicare i resti del paganesimo e convertire i biellesi alla fede cattolica.
È certo anche che sia stato il primo a introdurre il culto della Vergine su quei monti, benché non vi sia una notizia scritta che avvalori la tesi, e che vi volle un centro di culto cristiano, stabilendovi una dimora per i suoi ecclesiastici (anacoreti e apostoli), che esercitarono l’ufficio caritatevole di assistenza ai viandanti sull’erta strada che menava al valico (E. Crovella, “S. Eusebio di Vercelli”-S.E.T. Eusebiana, Vercelli, 1961). Sui monti di Oropa, dove si estendeva il sacro bosco dedicato dai romani ad Apollo, esisteva un centro di culto pagano presso una caverna naturale formata da massi erratici e chiamata nel linguaggio antico “balma”.Lì i contadini e i pastori celti si radunavano per i loro riti ed Eusebio “sostituì” la venerazione degli dei con la devozione verso la Madonna.
Non portò tra le rocce della “balma” la statua della Madonna e neppure costruì intorno ad essa il sacello con le pietre del torrente (che la leggenda vuole raccogliesse con le sue stesse mani).
Ai monaci benedettini dell’XI secolo, piuttosto, pare debba essere attribuita la prima erezione della cappella con la esposizione della statua della Vergine Maria (M. Paroletti, “Ragguaglio istorico… di Nostra Signora di Oropa” – Torino, 1820). Anche a Oropa, a distanza di 1650 anni dall’ordinazione a vescovo di Eusebio, continua comunque il miracolo della devozione alla Vergine.
Nella lotta contro l’arianesimo sempre risorgente, Eusebio ebbe come alleato il grande Dario di Poitiers.
Nel 354, per volere del papa Liberio, si recò insieme a Lucifero da Cagliari ad Arles, in Francia, presso l’imperatore Costanzo, per perorare la causa di Atanasio, ingiustamente condannato da un Sinodo irregolare.
Costanzo fece allora riunire un altro Concilio a Milano nel 355, invitandovi a partecipare anche Eusebio.
Avendo però egli preso le difese di Atanasio e dell’ortodossia nicena, per essere stato strenuo difensore della fede fu condannato dall’imperatore, mandato in esilio e torturato a Scitopoli, dove rimase per cinque anni, e quindi in Cappadocia e nella Tebaide.
Fu protagonista nell’immane lotta contro gli imperatori che volevano fare della Chiesa una loro provincia e contro gli ariani che volevano togliere a Gesù Cristo la sua divinità.
Viaggiò in Egitto e in Oriente finchè non fu richiamato dall’imperatore Giuliano nel 361 e poté far ritorno nella sua amata Vercelli nel 363, dopo un lungo viaggio utilizzato per far rinascere tra i cristiani la fede e la pace. In tarda età Eusebio ebbe la gioia di veder fiorire la Chiesa che aveva voluto.
Molti dei suoi discepoli del cenobio divennero i primi vescovi delle comunità cristiane piemontesi, da san Gaudenzio, vescovo di Novara, a san Massimo, vescovo di Torino.
Il santo morì intorno al 371 e fu venerato come martire della Chiesa.
Papa Giovanni XXIII lo dichiarò patrono del Piemonte.

Rosy Gualinetti

Bibliografia:
-“La ‘Vita Antica’ di sant’Eusebio” tradotta da Mario Capellino (1986), risalente all’VIII secolo.
-“Eusebio di Vercelli nel suo tempo pagano e cristiano” di Teresio Bosco (editrice Elle Di Ci, 1995).
-“Grande dizionario enciclopedico Utet” di Pietro Fedele.

I 25 anni dei Sardi di Biella festeggiati con il Vescovo

Biella, domenica 13 aprile – partecipazione numerosa alla solenne Processione delle Palme
Omaggio di palme sarde ai Canonici del Capitolo di Santo Stefano – salve beneaugurali dei Fucilieri di Su Nuraghe

E’ stata una cerimonia dal sapore antico quella celebrata la scorsa primavera, in occasione della Domenica delle Palme.
Il tradizionale rito dell’intrecciare foglie di palma, infatti, ha rivissuto a Biella nella processione guidata dal Vescovo, Monsignor Gabriele Mana.
L’evento è stato preceduto da un corso di intreccio organizzato da Su Nuraghe e tenuto dal Maestro Antioco Serra. Cinque serate trascorse nei locali di via Galileo per imparare a confezionare elaborate composizioni con le foglie e per preparare la Processione, culminate con la partecipazione dello stesso Vescovo.
La sera prima della processione, alla quale hanno partecipato anche numerose autorità politiche e militari cittadine e che ha avuto la scorta d’onore dei Fucilieri di Su Nuraghe, il circolo è stato animato dal bellissimo spettacolo del gruppo di Atzara, che ha proposto danze e balli della tradizione sarda.
Al di là dei momenti pubblici, comunque, il corso di intreccio ha forse rappresentato il vero cardine dell’iniziativa, perché è attraverso gli insegnamenti di Antioco Serra che tanti soci hanno potuto davvero recuperare una sapienza antichissima.
Uno degli episodi storici più noti per ciò che riguarda la tradizione delle palme intrecciate, infatti, è quello dell’ingresso di Gesù in Gerusalemme, accolto con composizioni di questo genere.
Era un’usanza riservata a grandi sovrani, un omaggio tributato ai re. Le radici dell’usanza sono però molto più lontane: foglie di palma intrecciate erano il simbolo della gloria che veniva riconosciuta ai grandi condottieri, specialmente in occasione di sfilate celebrative per vittorie militari.
Nel corso dei secoli, il cristianesimo si appropriò di questa tradizione, facendola sua e conferendole altri valori simbolici, tanto che ancora oggi, in periodo pasquale, la palma è largamente usata come pianta decorativa.
In Sardegna, ancora oggi l’intreccio mantiene un forte significato spirituale unito ad uno sociale, rappresentando un momento d’incontro tra le famiglie che realizzano le composizioni.
Nel 2004, con diverse modalità, l’iniziativa verrà comunque ripetuta. Una composizione realizzata intrecciando foglie di palma, verrà donata a Monsignor Mana in occasione della Processione, così da consolidare il caparbio lavoro di ‘recupero’ delle radici che, come d’abitudine, Su Nuraghe ha per sua stessa natura e vocazione, proposto all’intera cittadinanza biellese.

Edoardo Tagliani

Rassegna musicale Sabato in coro “Biella Estate 2003”

Biella, chiesa di San Giacomo, 4 luglio 2003 – festa dei Sardi e grande successo di cori
Coro Gusana di Gavoi e i Tenores di Lodine ospiti del Coro Burcina di Biella

Una serata indimenticabile trascorsa in grande allegria e amicizia in compagnia del canto corale.
Venerdì 4 luglio nel nuovo salone del Circolo Su Nuraghe si sono esibiti due gruppi corali sardi : il Coro Gusana e i Tenores di Gavoi.
Accompagnati dal Coro Burcina di Biella, che ha voluto così ricambiare l’invito in terra sarda avvenuto nel dicembre 2002 da parte del coro gavoese, gli amici di Gavoi e gli stessi coristi biellesi sono stati graditissimi ospiti dell’Associazione che ha organizzato per loro una magnifica cena alla quale è seguita l’esibizione dei tre gruppi su di un vero e proprio palcoscenico appositamente allestito di fronte all’attentissimo e appassionato pubblico dei presenti.
Il canto corale è sicuramente un veicolo eccezionale per far conoscere fra loro gruppi di persone di diversa provenienza, in questo caso sardi e biellesi, che mettono in comune valori e passioni fortemente condivisi creando in brevissimo tempo legami di amicizia incredibili che durano nel tempo.
Se n’è avuta riprova in quei giorni allorché i coristi di Gavoi e di Biella ed i rispettivi accompagnatori sono rimasti costantemente insieme a visitare i luoghi più belli della nostra terra Biellese, dandosi quindi nuovamente appuntamento davanti al pubblico la sera del 5 luglio presso la chiesa di San Giacomo nell’incantevole scenario del borgo medioevale di Biella Piazzo per dare vita alla rassegna musicale ” Sabato in coro ” inserita fra le manifestazioni di ” Biella Estate 2003″ kermesse estiva patrocinata dal Comune di Biella. Il concerto ha richiamato un numerosissimo pubblico, fra cui spiccava una folta rappresentanza della comunità sarda e di soci del Circolo Su Nuraghe.
I Cori sardi sono stati una graditissima sorpresa anche fra gli appassionati biellesi di canto corale e hanno contribuito, insieme ad un altro gruppo proveniente dalla Marche e al nostro Coro Burcina, in misura determinante alla perfetta riuscita della serata che ha riscosso grande consenso e prolungati applausi.
Un saluto della comunità biellese di origine sarda è stato dato da Battista Saiu, Presidente del Circolo Culturale Sardo ” Su Nuraghe ” di Biella, che ha altresì donato ai cori partecipanti quale omaggio e ricordo una copia del volume “Eusebio da Cagliari, alle sorgenti di Oropa”.